In un’ansa di costa montuosamente marina, Atrani si adagia con le piccole case a vista mare, indossando, nelle sere di dicembre, il vestito buono della tradizione, della suggestione, dell’incanto, della meraviglia. Ed è la magia del Presepe, quella raccontata da pittori, scultori, valenti artigiani dell’arte figulina, una magia che ha costruito, nei secoli, capolavori settecenteschi, ma anche capanne di sughero e casette di cartone ondulato, dipinto con colori ad acqua, perché da sempre tutto si riconduce all’ascolto dell’immaginario “Canto del Dio nascosto”.
Ogni anno è lo stesso appuntamento ma che ricrea, ogni anno, emozioni nuove, palpiti di fede, felicità di incontri. E anche se quest’anno tutto sarà diverso, Atrani la sera dell’Immacolata ha riacceso le sue mille luci colorate che addobbano archi, stradine, piazzette, affacci di case a cascata di colori.
«Non potevamo mancare a questo appuntamento, direi soprattutto quest’anno – sottolinea il sindaco Luciano Laderchi De Rosa -. Atrani si fa Presepe non solo per una particolarità turistica, ma perché questo paese vuole far risuonare ovunque l’antico annuncio della Santa Notte: pace in terra agli uomini di buona volontà».
La magia delle luci colorate avvolge gli uomini, le case, gli sguardi dei transitanti ogni giorno del periodo natalizio a far tempo da quell’«ora che volge al disio e ai naviganti intenerisce il cor», a ricordo di padre Dante; una fantasmagoria di colori prende il posto della luce del sole, immergendo il borgo in una atmosfera unica, mentre il monte Civita si ammanta della luce di una Stella viaggiante con la sua coda luminosa. Una tradizione questa che ad Atrani si ripete ogni anno dal 1878, con la sua discesa dal monte sino alla chiesa parrocchiale arroccata a dominio d’infinito. Un rito che quest’anno, purtroppo, salta l’appuntamento.
Nel suo inno natalizio, S. Alfonso Maria de’ Liguori cantava: «Quanno nascette Ninno a Bettlemme / Era notte e pareva miezo juorno. / Maje le Stelle – lustre e belle / Se vedetteno accossí: / E a chiù lucente / Jette a chiammà li Magge ‘a ll’Uriente». Una tradizione che dura da 142 anni semplicemente perché Atrani è un paese di serenità dove si ama parlare di pace. E poi Atrani ha sempre menato vanto, e a giusta ragione, di essere un paese-presepe. «Nel 1850 Vincenzo Amodio, meglio noto come “Vicienze e Catarina”, – ricorda Michele Siravo assessore alla cultura – costruì un particolare, magico presepe in cartapesta ancora oggi presente nella chiesa della Madonna del Carmine di Atrani, prendendo a modello i suoi compaesani. Credo che se fosse ancora vivo, avrebbe riprodotto gli atranesi di oggi elegantemente vestiti, ma con la mascherina a ricordo del momento che stiamo vivendo».
Al centro della caratteristica piazzetta, salotto naturale di questo borgo marino, è l’Albero di Natale, una cascata di luci bianche e rosse che fanno l’occhiolino al cuore delle persone buone.
Quest’anno sarà tutto diverso, niente incontri per il piacere di darsi gli auguri nel mezzo di un presepe, niente feste e dintorni per godere dello spettacolo della discesa della Stella, niente richiami a corona di una festa che qui, ad Atrani, ha i colori dell’immaginifico. Tutto, quest’anno, è silenzioso tutto è nell’intimo personale, ma con la mente rivolta all’altrui, tacito richiamo. Alcuni versi del poeta Edoardo Sanguineti dicono: «Impara a leggere quanto ha scritto il silenzioso amore» e quale amore più silenzioso, più intimo di quello che in questi giorni si può ascoltare ad Atrani?
Una suggestione che Angelo Anastasio ha fermato con scatti fotografici che pubblichiamo, da angolazioni di grande emozione e che, per quest’anno, forse restano le uniche da poter ammirare per godere della magia presepiale di Atrani, “bianca città d’un tempo e d’ogni giorno”, come ebbe a descriverla in una poesia Alfonso Gatto.
Tra archi ed angiporti avanza un suono di zampogne e ciannamelle, slarga nella piazzetta ad occhieggio di mare tra fornici d’ingresso: «E viene giù dal ciel, lento / un dolce canto ammaliator, / che mi dice, spera anche tu / è Natale non soffrire più».
Vito Pinto