E’ chiamato Vicolo Giudaica quel tratto di stradina stretta che dalla chiesa di Santa Lucia sfocia avanti alla chiesa di S. Agostino. Il suo nome, quel vicolo, lo deve alla presenza, nel Medioevo, di numerose attività commerciali di ebrei, i Giudìa, come allora si diceva. E il nome è rimasto anche per ricordare che alla regola sanitaria della prestigiosa Schola Salerni, avevano contribuito anche medici ebrei, insieme a luminari latini e arabi.
Già alla fine degli anni ’50 del secolo appena passato, a metà di questo vicolo era la bottega di Fortunata Notini, donna minuta, dall’indole buona e gentile, capelli d’argento a corona di faccia rugata dove brillavano piccoli occhi ridenti.
In un articolo del 1976 apparso su Casabella, l’antropologo Paolo Apolito scriveva: “Nella sua stanza-bottega Fortunata Notini (Russo) vive, lavora, cucina, mangia, accoglie la gente che va a trovarla … Il tavolo dove poggia i suoi manufatti, i suoi modelli, è il tavolo dove mangia, dove conserva il libro di preghiere, dove ha costruito l’altarino per i santi e i suoi morti. Il tavolo è il segno più visibile dell’integrazione delle sue attività… Quando si entra nella bottega di Zi’ Fortunata si coglie immediatamente la strutturazione… dello spazio… Lei è seduta al centro, sotto la luce della lampadina…; accanto a lei, in posizione centrale, gli oggetti d’uso quotidiano e gli oggetti sacri. Ed è significativo che questo si colga già entrando… l’integrazione è tale perché è manifesta, aperta, è tale perché chi entra ne partecipa, ne entra a far parte.
La scala che si trova in fondo alla bottega porta all’unico spazio delimitato ed eccentrico: il posto dove ha fatto i figli.”
Fortunata Notini era conosciuta da tutti quelli, salernitani e non, che nei giorni precedenti il Natale si recavano nella sua bottega in cerca di un pastore nuovo o di uno da sostituire sul presepe di casa. Donna Fortuna, e per altri Zi’ Fortunata, come era conosciuta, per mestiere faceva la “pastorara”, era una di quegli artigiani facenti parte di una categoria ormai scomparsa. Con l’avvento della plastica, di pastori di creta, cotti in fornetti a volte improvvisati e decorati a freddo, di casette di cartone, come quelle che faceva a Vietri sul Mare Marietta Arcella, la mamma del maestro ceramista Andrea D’Arienzo, non se ne trovano più. Ed è proprio il caso di dar ragione al filosofo che diceva: Panta rei! (tutto scorre).
Ma fin quando è stata in vita, la pastorara di Vicolo Giudaica non ha mai deluso i suoi clienti, affezionati o occasionali, che cercavano un pastore per il loro presepe di casa.
Per mesi Donna Fortuna, con le sue piccole ed agili mani, che col passare degli anni si raggrinzivano sempre più, prendeva la giusta quantità di creta e la pigiava negli stampi di varia grandezza per modellare i pastori da cuocere e poi decorare con colori a freddo, dando vita e respiro alle sue figurine per un presepe altrui. A noi, piccoli sciocchi, sembrarono così belli i pastori in plastica, con i loro colori brillanti di fronte a quelli in creta, con i colori a freddo, opachi! Li avremmo a lungo rimpianti, quei fragili pastori di creta e ricercati con affannosa nostalgia tra gli antiquari o in qualche vecchia scatola di cartone dimenticata in qualche soffitta.
Chi entrava nella bottega di donna Fortuna si trovava subito di fronte a traballanti scaffali di legno, sui quali vi erano sistemati, con bell’ordine di genere, Madonna, San Giuseppe e Bambinello, Re Magi, Angeli con trombe, incensieri e cartigli osannanti a Dio nell’alto dei cieli e portando pace in terra agli uomini di buona volontà. E poi vi era quella schiera di pastori, il popolo umile al quale il Salvatore si era mostrato quasi a testimonianza che fossero gli unici destinatari di un messaggio eterno. Non mancavano i truci soldati ammazzabambini di Re Erode, né i mori con i loro svariati strumenti a formare la banda musicale. E cosa dire, poi degli zampognari, dei vari Benino, dormiente in varie pose, o di Cicciobacco immancabilmente seduto su una botte di vino, e ancora di quella lunga schiera di pecore, cavalli, cammelli, galline ed altro mondo animale che corredava una scenografia fantasiosa, ma ricca di quella gioiosa serenità che solo Natale sa donare a grandi e piccini.
Il locale di Donna Fortuna era a piano terra, mentre una sgangherata scala in legno a fil di muro lesionato portava ad un piano superiore, dove, forse, la pastorara abitava. In un angolo donna Fortuna si era ritagliato una sorta di banchetto da lavoro, vicino alla porta era il fornetto per cuocere i pastori, circondato da mucchietti di cenere. Una volta il forno scoppiò e dovettero intervenire i pompieri: un fumo nero da asfissiare; alla fine, però, gli avventori della bottega trovarono i pastori che loro servivano nelle scatole di cartone o nelle cassette per la frutta dove Donna Fortuna metteva quelli in soprannumero di capienza degli scaffali. A fianco del banchetto erano pile di vecchi giornali con i quali incartava i pastori ai clienti: confezione alla buona, ma piena di gestualità antica che sapeva di rapporti umani. Appeso al soffitto e al centro del locale era una sorta di lampadario perennemente dondolante per il vento e che creava strane ombre sulle pareti della bottega.
Quando il Natale era trascorso, Donna Fortuna si dedicava a formare teste di gesso per marionette o restaurava statuine di santi e madonne del vicinato.
“Fortunata Notini si appassì con paziente abbandono – ricordava Corradino Pellecchia – come una bella pianta che non riceve da tempo la sua razione d’acqua” e andò a raggiungere i suoi cari che l’avevano preceduta. Ma restò nella memoria di tanti come una di quelle statuine di sante in gesso vestite che si usava conservare sotto le campane di vetro a devozione di famiglia.
Vito Pinto