Quando quattro anni fa decisi di rientrare a San Giovanni per stabilirmici definitivamente, vi giunsi col cuore pesante di chi sente che, sebbene ha ottenuto una vittoria sulla complessa questione delle “scelte di vita”, in qualche modo e al contempo ha comunque subito la sconfitta del mondo. Lo spaesamento dell’altrove aveva in qualche modo avuto la meglio su di me e sui miei sogni di bambina. Quel grande altro della città, brulicare di incontri e di possibilità, vorticare di luci e di suoni, quel sempre pieno, aveva colmato per il momento anche me. Mi sentivo satura, ma pensare al suo contrario, al mio paese, al silenzio che non smette di parlare delle montagne intorno e del mare nei mesi d’inverno, all’eccesso di spazio e di aria, al tempo lento di un “senza niente da fare”, sembrava serbarmi oppressioni ugualmente.
Il viaggio di ritorno assunse le tinte di un cammino ad ostacoli lungo il quale io stessa, e in modo per lo più inconsapevole, opponevo elementi di resistenza al normale fluire delle cose.
Ogni più piccolo gesto mi risultava faticoso e complicato, e persino fare il biglietto del treno all’automatico divenne per me motivo di panico. Devo ringraziare un amico, che seppur dalle distanze di un cellulare, riuscì a calmarmi restituendomi alle più basiche abilità. Muovermi, agire.
Quando fui giunta a destinazione, quel sentimento di ritrovarmi in un “piccolo mondo antico” si colorò di tante opposte sfumature, e riuscire a considerarle serenamente, fuggendo gli estremi bianco e neri della polarità città – paese, mi risultò faticoso quanto lo era stato trascinare quelle valigie ricolme di insegnamenti. Ritornavo alla casa della mia infanzia, alle relazioni quotidiane con i componenti della mia famiglia senza ancora un’occupazione che mi garantisse un’autonomia e senza una rete di conoscenze che potessero essermi da riferimento. Ritornavo al noto comunque da straniera, e tutto ciò su cui potevo fare affidamento, per salvarmi dall’estraneità, erano i miei ricordi.
Ogni angolo che mi aveva vista camminare coi piedi incerti di una bambina e poi con quelli sbilenchi di un’adolescente, era ora per me abitato da immagini. Non contava che molti nel frattempo se ne fossero andati, perché c’erano stati, e così la memoria li avrebbe sempre mantenuti veri in quel posto. La signora dei gatti, lungo la via interna che dal paese basso porta “ammonte”, i miei compagni di nascondino, e il miglior vicolo per sfuggire alle cerca, il muro di fronte casa, dove giocavo a pallavolo, e l’ “uomo col megafono” che poverino, aveva subito una laringectomia. E ancora il mio pensatoio. Poco fuori dalla parte abitata, c’era una collinetta. Appena un piccolo promontorio con qualche arbusto e degli alberi secchi e storti, e da lì a salire e scendere tutto uno sterrato su cui era divertente scivolare.
Me ne andavo lì per giocare ma anche per pensare. Correvo tra i tronchi e sull’erba rada e gialla e pensavo a grandi cose come la libertà, alla vita fuori da quel piccolo borgo, a quando sarei stata grande e a tutti i posti che avrei visitato. C’erano, in quella piccola isola, tanti futuri possibili.
Col passare degli anni, a queste immagini se ne sono mescolate di nuove e così questi luoghi sono diventati lo strato profondo della mia storia personale.
Decidendo di vivere in un piccolo paese, ho dovuto imparare a fare tesoro di ogni dettaglio. Il macroscopico come insieme mi suscitava aspre critiche e rimpianti, finché non ho capito che qui ciò che conta sono i particolari. Per sentir scorrere il tempo devi accorgerti che una rosa è fiorita. Ciò che cambia quotidianamente è vicino all’impercettibile, eppure esiste. È solo più discreto, richiede attenzione. Il “senza far niente” che temevo in realtà si è rivelato spazio di concentrazione e contemplazione, mi è divenuto necessario per rendermi conto di tutto ciò che, umilmente, chiede di essere visto nel suo essere altrettanto pieno. Ogni cosa qui parla, e parla a me, come a chi vi abita, il linguaggio speciale dell’appartenenza.
Francesca Schiavo Rappo