Cos’è un luogo? Cosa lo definisce? È uno spazio circoscritto? È uno spazio avente precise coordinate geografiche? Spostandoci di qua e di là incontriamo ed entriamo di volta in volta in luoghi. Città, paesi, vie, piazze, giardini, edifici. In luoghi pubblici e privati. Alcuni esistono da prima che noi venissimo al mondo. Altri si sono persi, altri vivranno se solo noi saremo capaci di dargli un nome. Questi sono i cosiddetti luoghi dell’anima. Quei luoghi che per alcuni non hanno alcun significato, ma che riempiono altri. Luoghi che non hanno bisogno di dirci qualcosa in più sulla loro storia, semplicemente perché lì siamo noi stessi e non abbiamo bisogno di rispondere a troppe domande.
Tra i miei luoghi ‘rifugio’, per esempio, c’è la Scogliera di Ascea Marina. La quale spiaggia si formò in seguito all’insabbiamento del porto fluviale dell’antica Elea. Ascea ha varie spiagge, sabbiose e chilometriche. Ma la riva più affascinante è quella di Baia Tirrena, dove il cosiddetto “Scuoglio ri nanti”, è percorribile e toccabile. Alle sue spalle – raggiungibili a nuoto o in barca – troveremo baie e calette, che si lasciano inondare da spruzzi d’acqua e pesci d’ogni specie. Non è raro imbattersi anche in qualche gabbiano, che con il suo suono porta in un’atmosfera romanzata. Al di sopra degli scogli una fitta vegetazione dal verde intenso, scandita dalla roccia. Qui, la maggior parte degli asceoti ha trascorso l’infanzia. Ma non è raro udire forestieri raccontare, con occhi pieni di nostalgia, i lenti pomeriggi d’estate, leggeri e spensierati, così come gli occhi di un bambino osservano con stupore.
Si era soliti correre fino a tarda sera dietro ad un pallone. I continui tuffi a largo coprivano persino gli schiamazzi dei bagnanti. E con gli amici ci si divertiva a rincorrere il sole, quel sole che si rifletteva sullo specchio d’acqua. “L’ho preso”, diceva il più furbo; mentre quello più ingenuo si spostava, lo toccava e ansimante, quasi scocciato, sbuffava: “basta, non si lascia prendere, è un gioco stupido”. Fino a quando una voce di adulto non richiamava tutti sotto l’ombrellone. Annoiati ci si incamminava verso il lido, incapaci di scegliere il gusto del nostro gelato preferito. Ma il dito finiva per puntare immancabilmente un cono panna e cioccolato, che forse ancora oggi sceglieremo tra milioni di gelati. Tutta l’estate scorreva così. Amicizie, appuntamenti, giochi e risate si consumavano lì. Percorrere oggi i luoghi rifugio vuole dire non lasciarli andare, tornarci e riappropriarcene.
Infatti, un luogo per poter resistere al tempo ha la necessità di essere percorso. Solo così può assumere un significato e rivivere in altri milioni di essere umani. Ci sarà chi lo deturperà, chi vi si rifugerà, chi lo guarderà al punto da fargli assumere sembianze umane. Chi ancora ci tornerà con la pretesa di lenire le ferite, chi lo userà come fonte di ispirazione, chi ci nuoterà per ricongiungersi con il proprio io. Il mare, l’infanzia, la casa delle vacanze, non a caso, trovano sempre spazio nella letteratura. Eugenio Montale, in Ossi di Seppia, dedica un’intera sezione al mare. Così, in ‘Mediterraneo’ intrattiene un dialogo con chi scioglie «i groppi interni» col suo canto. Il mare appunto, che prende l’appellativo di ‘padre’, compagno e testimone della sua infanzia/giovinezza. Luogo rifugio sarà: «La casa delle mie estati lontane/ t’era accanto, lo sai,/ là nel paese dove il sole cuoce/ e annuvolano l’aria le zanzare». Il poeta trascorrerà le sue estati a Monterosso, località delle Cinque Terre, in Liguria. Il richiamo al mare non è solo da intendersi come luogo fisico, ma come perdita dell’ingenuità una volta raggiunta l’età della ragione. Montale dinanzi al mare (fecondità; ribollire di vita) perde identità, essendo sulla terra (aridità; distesa di sassi) e quindi nell’età adulta – momento in cui l’uomo comincia a farsi delle domande. «Negli Ossi tutto era assorbito dal mare fermentante», dichiarerà più tardi, ma le onde insieme risucchiano e rifiutano l’io. Dunque, il mare assume il significato di pienezza esistenziale, di cui l’esistenza ne è priva. Leggere Montale in questo particolare momento storico significa entrare in contatto con gli imperfetti. Con quelli che si perdono nel mare oscuro dell’esistenza. Ma se l’esistenza ci appare così dura da prevalere l’età della ragione, voltiamoci ogni tanto. E perché no ripercorriamo i luoghi della nostra infanzia. Non per dare vitalità alla nostalgia. Ma per riappropriarci di quella leggerezza, di cui l’età adulta ne è spesso priva.
Anais Di Stefano