Aziende farmaceutiche sparse in tutta Italia, promotori, farmacisti e “medici compiacenti” hanno ideato “un articolato meccanismo corruttivo” per truffare il Servizio sanitario nazionale. Attraverso una serie di ricette prescritte a carico di pazienti ignari e spedite alle farmacie convenzionate sul territorio, le pillole e i medicinali (rimborsati dallo Stato) venivano ricettati e venduti a cittadini stranieri o buttati nei campi. Lo hanno scoperto i carabinieri del Nas di Bari che – su delega della procura del capoluogo pugliese – hanno eseguito 44 perquisizioni nelle province di Bari, Brindisi, Bat, Foggia, Napoli, Roma, Avellino, Salerno, Milano, Imperia, Torino, Ancona, Potenza e Catania. Per 17 aziende è stato disposto inoltre l’obbligo di presentare una serie di documenti alle autorità. L’ipotesi è che alla base della truffa ci sia un giro d’affari da almeno 20 milioni di euro, anche se il danno erariale è ancora da quantificare.
Gli “Angeli e demoni” della sanità pubblica alle nostre latitudini tormentano i nostri sogni di normalità nei momenti “bui” del bisogno di un qualsiasi servizio in capo al Sistema Sanitario Nazionale.
Intanto è giusto ricordare che dopo la riforma del “famigerato” art. 5 della Costituzione, votato dal Parlamento e confermato del voto popolare, la competenza, l’organizzazione e l’erogazione delle prestazioni sono delle regioni!
Si tratta, nella totalità dei casi, di una fetta consistente dei bilanci regionali (in Campania circa Il 70%), per cui stiamo parlando di una montagna di soldi che dovrebbero essere sufficienti a garantire le cure essenziali domicilio, la permanenza in ospedale, le visite specialistiche, le medicine …
Formalmente questo accade dappertutto, nella realtà si tratta, molto spesso, di servizi e prestazioni sulla carta! Mentre, per chi ha veramente bisogno di sanità deve sottostare a vere e proprie vessazioni burocratiche e morali oppure andare fuori regione.
Gli “angeli” che si sono immolati sull’altare del servizio a quanti sono stati colpiti dal Covid 19, restano un esempio da additare al riconoscimento della nazione perché hanno speso più del dovuto nell’espletamento del proprio dovere senza soluzione di continuità mettendo a rischio la loro stessa esistenza e, in molti casi, sono rimasti colpiti dal maglio del virus come i pazienti che tentavano di salvare.
I “demoni” sono quelli che imboscati nei loro studi privati hanno continuato a lucrare sui bisogni di salute delle persone … ed ora si accingono a sedersi al tavolo dove saranno distribuiti i miliardi aggiuntivi destinati alla sanità.
Ma “demoni” sono anche quelli che non si sono attivati per rendere meno pesante il calvario burocratico dei malati e dei loro familiari. So bene che chi leggerà queste righe sentono risalire dalla memoria episodi che confermano la lucida follia di un sistema che spende miliardi per curare, assistere, accudire … e invece non fanno altro che acuire e allargare la ferita fisica e, ancor più, mentale di quanti si rivolgono al servizio pubblico.
Primari e comprimari che invitano i pazienti nei loro uffici privati per un consulto e poi, dopo aver incassato la parcella (quasi sempre in nero) li “sistemano” nei reparti dove si pavoneggiano nel consueto giro prima di entrare in sala operatoria.
Infermieri e paramendici che lasciano ai familiari dei ricoverati l’incombenza dell’assistenza notturna: direttamente dormendo su una sdraio o indirettamente pagando sottobanco badanti i cui nomi e numeri di telefono sono forniti da proprio da chi dovrebbe garantire il servizio: è una sorta di “caporalato” di ritorno.
Poi ci sono le Aziende fornitrici che inondano i reparti di cibo che per la maggior parte è destinato ad essere smaltito nell’umido con ulteriore aggravio di costi per la casse pubbliche che paga due volte: per acquisirlo e per smaltirlo.
Gli esempi potrebbero essere tanti quanti sono quelli che hanno avuto la necessità di dover essere presi in carico da un presidio ospedaliero …
Io voglio raccontarvi la breve storia di un infortunio accorso a mia madre nella casa dove vive, da oltre 30 anni, da sola.
Mentre mi trovavo sul Cammino del Parco con mia moglie, sono raggiunto da una telefonata di mamma Giuseppina che mi annunciava di essere caduta nell’orto sotto casa, di aver chiamato il 118, prontamente intervenuto, e che era in viaggio verso l’ospedale di Vallo della Lucania come prescritto dalla centrale operativa dell’Asl Salerno.
Anch’io, quasi contemporaneamente, parto da Padula, dove mi trovavo, alla volta di Vallo per andare a sincerarmi delle condizioni di salute di mia madre.
Sulla strada del “parco”, che dovrebbe collegare il Vallo di Diano a Vallo della Lucania, i pensieri si affastellano e analizzano ogni possibile esito dell’incidente: sono state escluse fratture agli arti e colpi alla testa in quanto è stata lei stessa a chiamarmi per avvisarmi dell’accaduto.
Arrivo al Pronto soccorso del San Luca e mi dicono che la “paziente” è ancora in radiologia, appena rientrerà sarò chiamato.
Sia la sala di aspetto del P. S. sia quella all’ingresso del nosocomio sono gremite di persone in attesa di notizie relative ai loro cari giunti dopo essere stati colpiti da incidenti o altri traumi.
Entro così, in contatto con la realtà ospedaliera e con quanti sono accomunati dal comune destino. Tutti con le facce coperte da mascherine, aspettiamo “pazienti” che le azioni previste dai vari protocolli vengano espletate.
Lo sguardo cerca segnali di frenetica attività dovuta alla particolare situazione dovuta al Covid 19, ma la sensazione è quella di essere anni luce lontani da ciò che vediamo per TV ad ogni ora del giorno e della sera: medici, infermieri, operai, vigilanti … tutti si muovono in un moto tranquillo nelle varie direzioni che non sembrano avere destinazioni.
Finalmente rientra al P.S. mia madre, la saluto con un po’ di pudore (sono mesi che non ci abbracciamo o baciamo sulla guancia). Il medico responsabile mi preannuncia fratture multiple alla costole sinistre e che non appena sarà disponibile la radiografia potrà essere più preciso.
Ancora attesa e infine la “proposta” di trattenere la paziente in ospedale in osservazione per qualche giorno che diventeranno sei.
Acconsento senz’altro al ricovero che viene fatto nel reparto di cardiologia vascolare perché in Chirurgia non c’è posto!
Seguo la barella fino all’ascensore con la borsa e la stampella e poi salgo le scale a piedi fino al 2° piano. Mi chiedono di aspettare che fosse sistemata prima di poter entrare.
Quando entro nella stanza dove sono sistemati tre letti, trovo mia madre da sola fortemente provata dal viaggio in ambulanza da Piaggine e dalle traversie a cui era stata sottoposta per visite e controlli diagnostici.
Mi chiede di darle qualcosa da mangiare essendo digiuna dal mattino ma non so se posso andarle a prendere qualcosa al bar: cerco di calmarla in attesa che si affacci qualcuno che mi dia informazioni. Le infermiere del reparto non sanno niente e mi indicano il piano di sopra dove potrò trovare notizie.
Cerco di calmare mia madre che mi fa l’elenco delle medicine che lei abitualmente prende: sono le prescrizioni mediche che scandiscono la sua giornata a casa.
Qualcosa ha portato con sé ma altre sono stipate a casa. Finalmente arriva il medico che interroga la paziente e poi me in merito alle condizioni salute generali. Intanto arriva un’altra paziente e sono invitato ad uscire. Quando rientro, mi viene chiesto di portare l’indomani tutte le medicine che mia madre assume.
A questo punto mi viene spontanea la prima domanda: “Non sarebbe più semplice inviare una mail al medico curante che quelle medicine le prescrive sistematicamente?
La sera stessa, lascio la paziente insofferente e poco disponibile a collaborare con i sanitari. Arrivo a Piaggine, raccolgo le medicine in un sacchetto e vado a casa mia a 50 Km di distanza.
In tarda serata mi arriva una telefonata da una gentile infermiera dell’ospedale che mi chiede se posso portare una specifica medicina che mia madre assume per il morbo di Parkinson che in ospedale non hanno. Controllo nel sacchetto, ma non la trovo! La mattina seguente devo tornare a Piaggine, partendo da Capaccio Paestum, per poi andare a Vallo.
Quando arrivo, trovo la porta sbarrata perché è ora di visite, dopo aver spiegato ad un’infermiera che sono stati loro a chiamarmi per la medicina, agguanta il sacchetto e mi saluta.
All’ora di visita, dopo aver vagato per il centro di Vallo e aver salutato alcuni conoscenti, torno in ospedale. È l’ora del pranzo, non so, viste le disposizioni anti Corona Virus, se posso aiutare la paziente a mangiare: per lei sarebbe impossibile farlo da sola sia perché sofferente, sia per i vari tubi che partono dalla faccia sia per il tremolio delle mani che non le consentirebbero di affondare, sollevare e portare alla bocca il cucchiaio di pastina in brodo. Non avendo alternative lo faccio! La coscia di pollo, la mela cotta e il contorno di spinaci restano sul vassoio destinati al contenitore dei rifiuti dell’umido del San Luca. Sarà così per 4 dei 6 giorni (pranzo e cena) di ricovero …
Trovandosi in un reparto diverso, è difficile parlare con un medico con il primario; ma è mia madre che mi informa sulla situazione in base a ciò che le vien detto in occasione del giro mattutino. Al 4° giorno vedo passare il primario, lo fermo per chiedere notizie e mi risponde che “già l’indomani potrebbe essere messa in uscita”. Chiedo di saperlo con un po’ di anticipo e mi risponde che “sarò chiamato per telefono”.
Uscirà dopo due giorni e, ovviamente, senza nessuna comunicazione telefonica: sarà lei stessa a tenermi aggiornato su quando posso andare a prenderla.
Vado alle ore 14:00 e la prima cosa che mi dice è che ha fame, in quanto non le hanno portato il pranzo.
Chiedo una sedia a rotelle per portarla giù visto che non si regge in piedi che mi lasciano davanti alla porta della stanza con l’invito di riconsegnarla al pronto soccorso essendo, la sedia, “contabilizzata” a quel reparto come arguisco dalle iniziali PS scritte con un pennarello sul dorso dello schienale!
Raccolgo tutte le cose di mia madre e, con una certa fatica, mi avvio all’uscita dal reparto, entriamo in un ascensore riservato al servizio, entro nell’altro che un medico di passaggio mi indica e arriviamo al paio terra. Facciamo una fermata al bar per far bere un caffè a mia madre che si sente venir meno e poi esco nel cortile dove la lascio sola in attesa che io ritorni con l’automobile parcheggiata distante.
Saliti in auto, con una temperatura esterna che va oltre i 30°, partiamo per Piaggine dove lei ha chiesto espressamente di essere riaccompagnata: stringe tra le mani il certificato di dimissione con le prescrizioni per il post ricovero.
Quando siamo nel bosco di Campora e ci stiamo godendo la frescura, ci raggiunge la telefonata di una signora, compagna di stanza di mia madre, che ci informa del fatto che abbiamo lasciato sul comodino la borsa con i documenti ed altro. Non mi sembra il caso di tornare indietro: andrò eventualmente domani a riprenderla.
Arrivati in via Gaetano Ricci a Piaggine ci troviamo di fronte un mezzo pesante che blocca la strada che conduce davanti casa; chiedo al titolare dell’impresa di spostare il mezzo per evitare che la fatica di fare a piedi i 300 metri che ci separano dal portone di case creino altri problemi. Prontamente la richiesta viene esaudita e, finalmente entriamo a casa.
Sposto il tetto dal piano di sopra nella stanza di fianco alla cucina e adiacente al bagno con la doccia, organizzo con Caterina, una nostra parente che fa compagnia per qualche ora al giorno a mia madre, e poi parto per raggiungere la mia casa. Non prima però di aver chiesto a Caterina di andare, la mattina successiva dal medico di base a farle presente l’accaduto, mostrarle il certificato delle dimissioni emesso dall’ospedale e prenotare, fin da subito, le analisi a ripetere dopo 4 giorni.
La mattina dopo chiamo per sincerarmi delle condizioni della “paziente” e scopro che il medico “incurante” non ha prescritto le analisi come richiesto in quanto non è passato un mese dall’ultime di rutine fatte. Non sono valse a nulla le spiegazioni addotte!
Ma il laboratorio di analisi, a sua volta non vuole evadere la richiesta in quanto vuole che la prescrizione venga fatta dal medico “incurante”. Il tutto si risolve con una ricetta scritta dal medico “incurante” su carta bianca che salva “capra e cavolo!”.
Passano un paio di giorni e mia madre mi informa che l’addetto alla fornitura dei “pannoloni” ha effettuato la consegna ad altre persone anziane del vicinato ma non l’ha fatta da lei. Mi prega di occuparmi della questione e, dopo che il medico “incurante” le ha fatto un certificato per prescriverli, mi reco all’Asl di Roccadaspide per formalizzare l’esistenza in vita di mia Madre che da oltre due anni ha diritto ad avere la fornitura che, nonostante abbia superato indenne a 84 anni la pandemia del Covid 19, non è riuscita a “guarire” dall’incontinenza.
Arrivo allo sportello dove una signora seduta dietro la scrivania mi indirizza al piano superiore dove devo pagare il ticket di 5 €. Per fortuna dove di solito c’è il distributore dei biglietti numerati fino ad un massimo di 80, la fila è di 5 persone. Risolvo la questione in 15′ e torno al desk posto all’ingresso dell’ufficio. Consegno la ricevuta del ticket pagato, il certificato del medico “incurante” e compilo una dichiarazione nella quale dichiaro che faccio io la richiesta in qualità di figlio.
Mi rimetto in auto e torno a casa dopo aver impiegato un’intera mattinata per sbrigare una faccenda che si poteva risolvere con un clic sul computer dopo aver pagato il ticket con uno dei tanti sistemi di pagamento usati per qualsiasi transazione.
In fondo, mi vergogno un po’ per aver impiegato 5 pagine di fogli formato A4 per raccontare ciò che tutti nelle nostre realtà vivono quotidianamente sulla loro pelle e che persone pagate per assistere, curare, accompagnare, non sanno far altro che stare sedute dietro una scrivania, mascherate dietro un camice, alabardate da divise di vari colori, impietrite davanti ad un computer a fare copia incolla di certificati e ricette “incuranti” che la loro stessa esistenza in vita di operatori della sanità o dei servizi sociali ha un senso se si “preoccupano” del prossimo che lo stato affida alla loro professionalità.
E non è una consolazione che siano stati, ci sono e ci saranno tanti “angeli” ai quali va il ringraziamento dei cittadini tutti, perché basta un solo “diavolo” a farci ricordare che le fiamme dell’inferno di una sanità effimera e senza anima ci fa diventare miscredenti nei confronti del sistema.
Intanto, il ministro Speranza annuncia altri miliardi di Euro per ammodernare la sanità al Sud! “incurante” del fatto che i risultati di quelli che già vengono spesi non fanno altro che alimentare un apparato burocratico che esiste fine a se stesso!
Bartolo Scandizzo