Nel cuore del Cilento, alle spalle di Vallo della Lucania, si erge il Monte Gelbison (più comunemente conosciuto come “Monte Sacro” o “Monte di Novi Velia” perché frazione di questo Comune). È un grande cono verdeggiante che, in virtù dei suoi 1707 metri di altezza sul livello del mare, rappresenta la vetta più alta del gruppo dei monti del Cilento. È senza alcun dubbio il più spettacolare punto di osservazione su tutto il territorio del nostro Parco Nazionale a 360°, dalla costiera, alle valli, alle quote più elevate: dal mare di Ascea, l’area archeologica di Velia, Capo Palinuro, fino alla valle di Rofrano e il monte Cervati con i suoi 1898 metri.
Il nome del monte è di etimologia saracena, “Gebil-el-Son” – la “Montagna dell’Idolo”, perché questa montagna era considerata sacra già prima che i Monaci Basiliani, nel X sec., fondassero il santuario sulla vetta. La sacralità dei luoghi si avverte già all’imbocco del sentiero dove, tra la folta e suggestiva vegetazione, il torrente Torna scorre saltellando qua e là tra i massi di arenarie formando una successione di pozze e piccole cascate.
Lungo il percorso che da Novi Velia porta alla vetta del Gelbison, la vegetazione muta piuttosto rapidamente e i castagni cedono il passo ad abeti di diverse specie. Serpeggiando nel folto del bosco, il sentiero si fa sempre più stretto e aumenta anche la pendenza, finché ricompare l’ontano e cominciano ad aprirsi radure pittoresche in cui prevalgono gli arbusti del sottobosco. Fra questi spiccano splendidi esemplari di corbezzolo. Si giunge così al pianoro in cui sgorga la sorgente di Fiumefreddo (1060 metri) dove un’acqua sempre limpida e fresca zampilla vicino ad un’effigie della Madonna. Lo spiazzo naturale rappresenta anche il luogo ideale per una sosta utile a rifocillarsi. L’ultimo tratto del percorso lastricato è piuttosto ripido e attraversa la vasta faggeta che circonda la cima del Monte Gelbison.
Il percorso, della durata di circa due ore, è molto panoramico, ben disegnato e sale in maniera costante senza affaticare il camminatore.
Da alcuni belvedere situati lungo il tragitto è possibile ammirare il sito dell’antica Elea-Velia, e Capo Palinuro. Dopo circa 3 km il sentiero finisce sulla strada asfaltata in una curva. Si prosegue a sinistra in salita, e dopo circa 1 km si giunge ai piedi dell’area del Santuario della Madonna del Sacro Monte. L’ultimo tratto del percorso lastricato è piuttosto ripido e attraversa la vasta faggeta che circonda la cima del Monte Gelbison.
Giunti qui, si nota un grande ammasso di pietre votive, disposte a cono, sovrastate da una croce.
Si prosegue sempre in salita fino alla piazza antistante la Chiesa principale. Da qui la splendida vista panoramica ripaga della faticosa scalata.
Inoltre, un enorme croce di ferro, domina la cima del monte, ed è visibile da tutto il Cilento quando è illuminata.
Il santuario
Dall’ultima domenica di maggio alla seconda di ottobre migliaia di pellegrini, di anno in anno, accorrono per rendere omaggio alla Madonna venerata nel Santuario più alto d’Italia, uno dei luoghi di culto più noti di tutto il meridione ma conosciuto anche in molte parti del mondo grazie ai tanti nostri emigrati.
L’apertura avviene in modo suggestivo e solenne, alla presenza del Vescovo di Vallo della Lucania, del parroco, del Sindaco di Novi, di tutti i novesi e di altre autorità civili e militari. All’inizio della Celebrazione Eucaristica l’effige mariana viene svelata ai tanti pellegrini che, sin dalle prima ore del giorno, affollano la Chiesa.
I pellegrini, fin dai primi anni del Mille, partivano a piedi da tutto il Cilento, dal Vallo di Diano, dalla Basilicata e persino dalla Calabria, dormendo all’aperto o in ripari naturali, sfidando gli acquazzoni estivi o il sole cocente di agosto. In occasione del pellegrinaggio, i loro paesi si spopolavano. Chi veniva da più lontano impiegava intere giornate di cammino e portava con sé tutto, persino l’acqua in pesanti recipienti di terracotta (quelle che nel dialetto cilentano sono conosciute come “mommole“). Chi li possedeva, portava asini o muli che alleviavano la fatica del viaggio. Si camminava dal mattino presto fino a sera e ci si fermava poi a dormire nella chiesa dell’ultimo paese raggiunto o nei boschi.
L’accesso al Santuario avveniva attraverso due vie mulattiere: una da Rofrano, usata dai pellegrini provenienti dal Vallo di Diano, dalla Basilicata e dalla Calabria, e una da Novi Velia, attraverso la valle del torrente Torna: percorrendo boschi di castagni ed ontani, si arrivava alla fontana di “Fiumefreddo”, tappa obbligata per rifocillarsi per poi riprendere il cammino per la mulattiera (a parte lastricata) sotto faggi altissimi, fino ad arrivare al “Manto” (o Vestito) della Madonna – il punto che segnava (e segna ancora oggi) che la meta era ormai vicinissima. Qui i più giovani aspettavano gli anziani che, a causa dei loro acciacchi, si erano attardati. A quest’altezza era ed è possibile ammirare un panorama stupendo. Si approfittava della vista per prendere fiato prima di ricominciare la scalata. Ma non senza compiere prima un importante rituale: i pellegrini, dopo una preghiera ed un canto alla Madonna, uno dopo l’altro, passavano in un anfratto molto stretto. Secondo la credenza popolare, chi non era in grazia di Dio non riusciva a passare. Una vera tragedia per i più corpulenti che, mai come in questa occasione, desideravano non avere quei chili di troppo! Le giovani spose, in particolare, compivano questo rituale nella speranza di diventare subito madri. Al termine di questo rito baciavano una grossa pietra dove, secondo la leggenda, si sedette la Madonna per cucire il suo “vestito”. A questo punto era possibile rimettersi in cammino.
Lungo l’ultimo tratto i pellegrini che salivano al Santuario per la prima volta, si caricavano di una pietra in segno di penitenza e la deponevano presso quella che è conosciuta come “Croce di Rofrano” – così chiamata perché era il punto in cui confluivano le due vie mulattiere. I pellegrini, allora, giravano per tre volte intorno al cumulo di pietre sormontato da una Croce deponendovi la loro pietra e poi continuavano il cammino pregando, cantando e meditando le 14 stazioni della Via Crucis. Ancora oggi qualche “compagnia”, così come nel passato, compie il gesto della pace dandosi una stretta di mano: non sia mai che qualcuno arrivi dalla Madonna nutrendo nel proprio cuore odio o rancore per l’altro!
Al termine di quest’ultimo, faticoso tratto ci si trovava in un piazzale, dove si erge ancora oggi una colonna sormontata da una croce, intorno alla quale le “compagnie” dei pellegrini giravano per tre volte. Questi giri ebbero origine probabilmente dal bisogno di dar tempo ai ritardatari, per la stanchezza o per l’età, di riunirsi agli altri, e così entrare tutti in riga nel Santuario. Con il tempo questa pratica è diventata un vero e proprio rito da osservare scrupolosamente. Dal “piazzale della Croce”, poi, si raggiungeva la Chiesa, ma prima di entrarvi avveniva un’altra cerimonia: la benedizione delle “cente”, delle vere e proprie sculture formate da candele che manifestavano la devozione dei pellegrini alla Madonna.
A questo punto i pellegrini compivano un ultimo giro, questa volta intorno alla Chiesa, con le mani appoggiate alle pietre di cui è composta, recitando per ogni pietra l’Ave Maria.
Al termine del giro, salivano in ginocchio gli scalini del sagrato. Finalmente potevano entrare in Chiesa, “salutare” la Madonna e partecipare alla Celebrazione Eucaristica.
Dopo essersi riposati e rimessi in forze, potevano cominciare la discesa dal Santuario intonando con zampogne, ciaramelle e organetti il celebre canto: «Noi ce ne andiamo alle nostre case/chi ci vo’ trase senza di te./Maria risponde io t’accompagno/sotto il mio manto ti porterò./Io mo parto e parto sicuro/ ‘mpietto la porto la tua figura./E sempre ‘mpietto la voglio porta’/sempre a Maria io voglio chiama’».
Ancora oggi i pellegrini sono quasi sempre gli stessi così come sono sempre le stesse le persone pronte ad accoglierli all’arrivo: famiglie che tramandano di generazione in generazione il commercio di articoli sacri o la ristorazione.
I pellegrini si sentono “a casa”; ci si rende conto di essere tutti fratelli, appartenenti ad un’unica grande famiglia: la Chiesa.
Alcuni salgono al Santuario da oltre sessant’anni; qualcuno, come me, ha avuto la fortuna di esserci salito ancora in grembo alla madre; una sola, invece, ha avuto la sorte di nascere in una casa posta proprio sul Monte Gelbison e può vantarne la cittadinanza: Maria Luisa Gatta.
Nel corso dei decenni e dei secoli tante cose sono cambiate, c’è una grande differenza tra i pellegrinaggi di una volta (a piedi) e quelli di oggi (in autobus) e, purtroppo, le “compagnie” sono sempre più esigue, forse perché al giorno d’oggi si è sempre di corsa, presi da tanti impegni. Bisognerebbe, però, di tanto in tanto, fermarsi e dedicare un po’ di tempo a se stessi.
La leggenda del cavaliere
La “Ciampa del Cavallo” è un grande masso a forma di “ferro” di cavallo che si innalza dal precipizio, sul piazzale antistante la chiesa.
La tradizione racconta che si erano recati sul Monte Gelbison due cavalieri: uno cristiano e uno non cristiano. Entrato in chiesa, il cavaliere cristiano si prostrò ai piedi della Madonna e cominciò a pregare. Al vedere ciò il cavaliere non cristiano cominciò a deridere ed offendere il compagno, poi, uscito dalla chiesa, salì sul suo cavallo e cominciò ad urtare e spintonare chiunque incontrasse. Improvvisamente il cavallo, disobbedendo ai comandi del suo padrone, si impennò e cominciò a correre all’impazzata, poi, con un salto, andò sulla punta del masso antistante la Chiesa (la “ciampa del cavallo” appunto). Il cavaliere, trovandosi in estremo pericolo, chiese aiuto alla Madonna. Il cavallo, allora, si girò lentamente su se stesso e, con un salto miracoloso di 4-5 metri, tornò sul piazzale della Chiesa, mettendo in salvo il suo cavaliere che, per la grazia ricevuta, si convertì.
Sulla “ciampa” c’era e c’è tutt’ora l’usanza di gettare 9 pietre, in disprezzo del cavaliere infedele. Oggi le pietre sono diventate per lo più monetine. Le ragazze compiono questo rituale con l’augurio e la speranza di sposarsi entro l’anno. I più anziani che si cimentano nella gara, invece, se vi riescono sono sicuri di far ritorno al Santuario anche l’anno successivo.
La Fontana Benedetta
Dovendo trascorrere un’intera giornata prima del ritorno a casa, i pellegrini avevano tutto il tempo di andare, attraverso un’angusta mulattiera, nel bosco, alla “Fontana Benedetta” per portare a casa “l’acqua della Madonna” di una sorgente che scaturiva da un masso posto, idealmente, in direzione dei “piedi” della Madonna. Oggi, purtroppo, questa escursione non può essere fatta per l’impraticabilità del sentiero.
Il Giardino della Madonna
Fino a qualche decennio fa, c’era la possibilità di far visita al “Giardino della Madonna”. Qui si poteva ammirare un panorama mozzafiato e vedere “Bruno e Geppina”, il lupo e la volpe che il vecchio Rettore del Santuario – don Luca Petraglia – teneva, opportunamente legati, in bella vista ai visitatori.
La Croce
Sul Santuario si erge maestosa una “Croce” di ferro zincato. I paesi più vicini al Santuario possono vederla sia di giorno che di notte, perché è illuminata da centinaia di faretti. La Croce è ben fissata sul “Giardino” – la punta più alta del Gelbison – dal quale si vede un meraviglioso panorama: il golfo di Salerno, la penisola Sorrentina, Ischia, Capri, la Calabria, la Sicilia, l’Etna, lo Stromboli.
Veronica Gatta