Toni Servillo, all’anagrafe Marco Antonio Servillo è uno tra gli attori italiani più valorosi e talentuosi nel panorama mondiale, vincitore di due European Film Award, quattro David di Donatello, quattro Nastri d’argento, due Globi d’oro, tre Ciak d’Oro e del Marc’Aurelio d’Argento per il miglior attore al Festival internazionale del film di Roma, nonché protagonista indiscusso del film premio Oscar ‘’La Grande Bellezza’’, in occasione della cinquantesima edizione del Giffoni Film Festival ha rivelato pensieri di rara saggezza.
Cosa pensa del Giffoni Film Festival?
Sono trascorsi dieci anni ha quando sono venuto qui la prima volta e devo dire che ho riscontrato la stessa determinazione e la stessa passione. A parte il distanziamento imposto dall’emergenza sanitaria, il cuore pulsante del festival non è cambiato. Il messaggio più contagioso che viviamo in questa edizione è l’amore per la vita in un momento storico che invece ci abitua alla morte. In questo senso Giffoni è unico, perché è capace di mettere insieme giovani appassionati di cinema che possono incontrarsi e confrontarsi. Ho avuto modo di vedere il documentario realizzato per il cinquantennale. Mi ha colpito, tra le tante, la testimonianza di Wim Wenders. Il fatto che venendo qui ha ritrovato il bambino che è in lui. Questo rispecchia molto la dimensione pedagogica del festival. Vedendolo si capisce che il cinema è l’occasione per rilanciare argomenti più complessi. È un’opportunità che consente ai ragazzi di conoscere la varietà del mondo e che fa loro amare la vita. Conservare lo stupore dell’infanzia è fondamentale. I giovani non sono vasi vuoti da riempire con il nostro sapere. Questo è il luogo per eccellenza dove viene sfatato un luogo comune su una gioventù non curiosa e non attenta. A Giffoni è rappresentato il suo lato migliore.
Riguardo al film premio Oscar “La Grande bellezza”, cosa esprime?
È stata la mano di Dio, ne so quanto voi. Dovesse chiamarmi all’ultimo momento mi faccio trovare pronto avendo già fatto cinque film con lui.
Ci anticipa qualcosa del film “Qui rido io” di Mario Martone?
“Interpreterò il grande attore e commediografo Eduardo Scarpetta, le riprese sono terminate il 30 luglio. Io e Mario siamo legati da un antico rapporto di stima e di amicizia”.
I suoi prossimi progetti?
A novembre inizierò le riprese di Dall’interno, il nuovo lavoro di Leonardo Di Costanzo, celebre tra gli appassionati di documentari, che mi vedrà insieme ad Alba Rohrwacher e a Silvio Orlando, è una sfida che noi che amiamo il suo cinema accettiamo con piacere.
Cosa consiglia ai giovani aspiranti attori?
Tutti i personaggi sono difficili. Lo sono ancora di più quelli ispirati alla realtà perché il pubblico nutre delle aspettative. Ai ragazzi che vogliono intraprendere questa carriera direi: ci vuole impegno, sacrificio e dedizione. Non è una porta facile per il successo.
Siamo in Sala Truffaut, cosa rappresenta per lei questo genio del cinema?
Grazie a Truffaut ho scoperto Balzac. Se ci fossero più film con riferimenti alla letteratura forse i giovani potrebbero appassionarsi, ma ogni generazione ha le sue specificità.
Nel panorama italiano, secondo lei, quali sono i giovani attori più interessanti?
A mio parere, Alessandro Borghi e Luca Marinelli faranno molto nei prossimi venticinque anni. Sono anche contento che il cinema napoletano stia vivendo una fase di crescita esponenziale, si stanno facendo tante cose, Sorrentino, Martone, Andò, De Angelis. E se vogliamo anche le vittorie a Cannes di Gomorra e de Il divo sono targate Napoli. Anche Marco D’Amore, credo sia un giovane talentuoso. Ho visto Marco fare esattamente quello che facevo io quando ero parte della compagnia di Leo de Berardinis, che rappresentava per me un riferimento assoluto per il teatro. Non c’era replica in cui non fossi dietro le quinte a vedere cosa facesse. E Marco ha fatto lo stesso. Quando ci siamo trovati in uno spettacolo complesso, La trilogia della villeggiatura di Goldoni, durante una tournée di ben 394 date è capitato che qualche attore si ammalasse e Marco ha sostituito perfettamente quattro attori su diciassette conoscendo il ruolo di tutti gli altri. È un attore dotato di un talento, ma da solo il talento non basta. Il suo è un talento governato dall’intelligenza, dote che ti orienta nelle strategie e lavorativamente parlando ti insegna a dire molti no e pochi sì. Credo molto nei giovani. In Elvira, lezioni teatrali di Louis Jouvet, un testo sul rapporto tra allievi e maestri, c’è una bravissima Anna Della Rosa, che prima si trovava in un felice limbo dell’anonimato. Chi cresce con te professionalmente tende ad assorbire i tuoi pregi e i tuoi difetti, l’importante è che prima o poi si affranchi e prenda la sua strada.
Il suo primo amore è il cinema?
No, è il teatro, quest’arte come diceva Artaud deve essere contagiosa. Dovrebbe raccontare un sentimento in una maniera nuova, alla quale non avevi mai pensato prima. Credo che le emozioni dal vivo siamo irripetibili. La forza del teatro è la sua libertà, ma è anche una trappola dalla quale non puoi scappare se non riesce a coinvolgere quel pubblico che Shakespeare in Antonio e Cleopatra battezza il mostro dalle mille teste. Il teatro è poesia.
Cosa rimpiange di più della sua infanzia?
Se dovessi tornare indietro con la memoria, ripenso ad Afragola. A settembre. Mi piacerebbe rivivere quella sensazione di me bambino circondato da un gineceo di nonne, zie, cugine, tutte bellissime, che cantavano e chiacchieravano mentre facevano le bottiglie di pomodoro. Era come trovarsi nel Campiello di Goldoni, un teatro di assonanze e di rimandi. Vivevo in una palazzina nell’unica strada asfaltata del paese, la cosiddetta “a via liscia” che è un po’ il mio paradiso perduto, la mia isola di Arturo dove vorrei tornare.
Intervista a cura di Lucrezia Romussi