Per oltre un quarto di secolo sul tratto della strada statale 163 amalfitana, subito dopo la deviazione per il borgo marino di Erchie, vi era uno “scheletro” di costruzione abitativa che sovrastava con la sua nudità il verde paesaggio di mezza costa. Le motivazioni della sospensione della costruzione non si sono mai appurata: fermo giudiziario per abuso edilizio? Mancanza di fondi da parte dei proprietari? Divergenze familiari? Un mistero! Sta di fatto che non più tardi di qualche anno fa, il frequentatore della Diva Costa ha visto, quasi per magia, quel fabbricato completato, a fare bella mostra di sé nel verde dei limoneti.
Un emblema di quanto in Italia spesso nulla è più definitivo del provvisorio! Ed emblema della Costiera Amalfitana fu, per oltre un trentennio, quel complesso alberghiero denominato “Fuenti”, divenuto simbolo di una battaglia ecologica “di principio” che alla fine, come era prevedibili, non ha avuto vincitori: l’abbattimento di quel colosso alberghiero è stato una sconfitta sia per chi era propenso al suo mantenimento (immaginando un sicuro sviluppo turistico ed economico per la zona) e sia per chi aveva lottato strenuamente per l’abbattimento, “a sacrosanta difesa ambientale”. Il risultato fu un grande buco lasciato su un terrazzo di roccia!
Ma a guardarsi intorno gli scheletri di una sognata, rivelatasi illusoria, civiltà industriale costruita intorno alle aree (in)urbane di Salerno, dove negli anni cinquanta e sessanta si immaginò un futuro sociale diverso, non sono pochi. A quel sogno si sacrificarono intere aree floridamente agricole e si sacrificò la società post-industriale a un’illusione della modernità.
La chiamano “archeologia industriale”, ma in definitiva sono i resti di vecchie (e a volte antiche quanto nobili) fabbriche, una volta ricolme di ritmi produttivi, che oggi mostrano esterni perimetrali con mattoni sbeccati a dominio di erbacce, intonaci cadenti, ciminiere fredde ed erte verso un cielo senza futuro, finestre prive di infissi o con vetri rotti, che si spalancano su un vuoto interno dove mura e pilastri parlano di un tempo che fu. Quanta tristezza!
Di fronte a questa “bellezza clandestina” tempo fa (vedi “Unico settimanale” del 10.08.2019 al link https://www.unicosettimanale.it/news/attualita/831567/una-bellezza-clandestina ) Antonio Caporaso e Jacopo Naddeo, antitesi generazionale di fotografi-sognatori, pensarono di mettere in scena una “disobbedienza civile”: avevano osservato, scrutato, meditato, fotografato quelle sopravvivenze di un progetto Italia (o Sud) rivelatosi utopia, e misero in mostra, con “Urbs picta”, una quarantina di scatti fotografici quasi a denuncia di una assuefatta e scontata noncuranza. E in una garbata quanto essenziale nota in un contenuto pieghevole, Caporaso si chiedeva: “Perché queste fatiscenti strutture non possono tornare ad essere bene comune e produrre nuove economie, riqualificando le zone che le ospitano?”
Una domanda legittima, che ancora oggi resta senza risposte. Anzi, e certamente non si sbaglia, c’è da pensare che “quelli che dovrebbero”, che hanno dei doveri verso i cittadini, i governanti (tanto per intenderci) dell’amministrazione locale, in primis, e regionale poi, non hanno minimamente preso in considerazione una eventualità di rilancio di quelle vecchie, ma a volte ancora nobili strutture industriali. Pastocchie burocratiche, proprietà latenti in attesa dell’affare, mancanza di volontà politica, certamente frenano ogni iniziativa. Eppure basterebbe poco, senza sprechi di danaro, per riabilitare quei opifici dormienti. Lontani da ogni idea di interventi economici e strutturali, basterebbe pensare ad una offerta culturale, mettendo gli spazi a disposizione di quei giovani scatenati per “l’arte pubblica senza costi” che vengono chiamati writers, ma che sembra più giusto chiamarli “franchi-artisti di strada”: certamente darebbero nuova vita a quei luoghi, simboli di una precisa epoca storica e di una operosità sognata all’insegna del “cambiamento” produttivo.
“Noi abbiamo sognato pezzi di muro – scriveva Caporaso – che diventano opere da tutelare nel ricordo di quella che rappresenta un ciclo della storia: dall’apice dello sviluppo industriale alla profonda crisi dei nostri giorni”. E oggi più che mai, dopo il ciclo della pandemia che ha investito tutti gli uomini, si dovrebbe pensare ai cambiamenti: e pensarci all’insegna del risparmio economico, laddove è possibile, può anch’esso rappresentare un diverso modo di programmare al futuro. D’altra parte altre città in Italia (leggasi Napoli, Milano, Roma, Catania, Palermo) hanno riqualificato gli antichi siti industriali riconvertendo e riconducendo all’arte le vecchie, ma mai obsolete strutture industriali.
Via, quindi, l’idea di abbattere e ricostruire: bisogna solo sfruttare e rilanciare l’esistente!
D’altra parte la strada della riqualificazione artistica di vecchi e abbandonati contenitori potrebbe essere quella giusta per una città come Salerno, che ha l’ambizione di voler essere una città europea!
Forse si continuerà a governare, con le vecchie logiche, ma a noi resta sempre la possibilità, e la voglia, di sognare che possa accadere qualcosa di bello. Fjodor Dostoevskij nel suo “L’Idiota” fa dire al principe Miškin: “La bellezza salverà il mondo”. E tra il bello e il bene esiste un legame misterioso, inafferrabile e indistruttibile.
Vito Pinto