Nei paesi della diocesi il fascismo si affermò non per la vittoria dello squadrismo agrario contro organizzazioni socialiste e cattoliche, ma per la debolezza della vita civile e il conformismo trasformista della classe dirigente. Le tensioni sociali furono contenute restaurando la prassi contrattuale e la contadinizzazione di vaste aree; diminuirono tendenzialmente le dimensioni aziendali con la vendita o la cessione in fitto di piccoli lotti, il passaggio di molti terreni alla conduzione diretta, un notevole aumento delle superfici condotte in affitto o a mezzadria. Si rivalutò il ruolo della rendita fondiaria e, di conseguenza, fu compresso il reddito dei contadini. Il regime si radicò nell’ordine sociale come una gerarchia di poteri e di status, senza determinare rinnovamenti e trasformazioni. Durante il ventennio, il Cilento fu protagonista di un gigantesco sforzo di auto-sussistenza, come dimostrarono la stasi dell’emigrazione e la sovrappopolazione agricola. L’esigenza di mantenere nel settore primario forze, alle quali il sistema economico non riusciva ad offrire sbocchi occupazionali, fece aumentare i piccoli proprietari ed i fittavoli rispetto ai braccianti. A volte si reagì con episodi di aperta rivolta, da alcuni ritenuti un sintomo di apposizione; invece, furono manifestazioni della tradizionale ostilità contadina, la quale contestò ammassi fascisti e granai del popolo per l’eccessivo fiscalismo e la corruzione.
L’indiscussa autorità dell’ordinario in diocesi, rafforzata anche dal concordato del 1929, fece della chiesa locale una più omogenea istituzione, impegnata ad egemonizzare la società anche mediante un più accurato ed efficace controllo della religiosità tradizionale. Furono anni di considerevole accentramento, fondato sul primato papale, che s’irradiava nella diocesi grazie all’azione di vescovi rigidamente selezionati, pronti ad eseguire le direttive della Santa Sede. La chiesa locale, consapevole della compattezza che le consentiva di dominare la società, condannava le manifestazioni giudicate pericolose; nel disperato tentativo di conservare i requisiti essenziali alle campagne, minacciate dall’incipiente industrializzazione, procedeva ad un’attenta pastorale per dare contenuto a tanta ritualità religiosa. La tipologia sociale prevalente richiedeva strumenti nuovi d’intervento per riacquistare spazi operativi e veicolare l’annuncio evangelico in un laicato, che tendeva a scristianizzarsi. Si organizzarono convegni per diffondere la cultura cattolica e iniziative per colpire l’immaginario collettivo, veicolando nelle fasce popolari forme rituali sacramentali e cristologiche, come la quarantore. Molti furono gli elementi di convergenza tra poteri pubblici e istituzioni ecclesiastiche agevolando l’intesa tra stato e chiesa, soprattutto quando il clero della zona cominciò a sperimentare una concreta possibilità di collaborazione, dopo la traumatica esperienza del 1860 e il successivo orientamento anticlericale dei ceti dirigenti locali.
Mons. Cammarota, distintosi per orientamenti di acceso nazionalismo, dopo il concordato non esitò a manifestare le proprie intenzioni al prefetto per orientare clero e laici affinché “l’elezione di oggi riesca un vero plebiscito per il duce”. Il presule non ebbe remore nell’invitare il prefetto di Salerno a comunicare al capo del governo che egli sarebbe andato alle urne, al contrario delle precedenti tornate “giacché per il passato, conservando integra la sua indipendenza ed avendo poca stima di quanto si faceva nelle passate elezioni” s’era sempre astenuto. Il clero in generale si rallegrò che, almeno in linea di principio, fossero cessate le continue offese, umiliazioni e punture di spillo, che i governi liberali non avevano risparmiato. L’avvicinamento della chiesa locale al fascismo fu agevolato dalla reazione all’anarchia sperimentata nel primo dopoguerra e dall’avversione verso liberalismo e socialismo, accomunati da una severa e intransigente condanna; tuttavia, nel valutare l’entità del consenso dovevano mettersi in conto anche le scelte operate dal regime nei primi anni. L’introduzione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari, l’aumento della congrua a parroci e mensa vescovile contribuirono a smorzare il dissenso, diffondendo la speranza di una possibile risacralizzazione della società.
Non tutto si svolse in una costante sinergia di sforzi. Tra i problemi più scottanti rimase il rapporto con le organizzazioni fasciste, messo in crisi nel 1931 dal tentativo di egemonizzare l’educazione giovanile. Le ripercussioni anche nella diocesi di Capaccio-Vallo furono gravi. Presule e sacerdoti operarono per rafforzare la compagine dei circoli giovanili e degli adulti con settimane di studio, convegni, corsi di cultura religiosa, che insistevano sulla formazione etica e religiosa; perciò, mons. Cammarota fu pronto ad enfatizzare l’accordo di compromesso raggiunto con le autorità di governo. Negli anni 1933-4 l’associazionismo cattolico cominciò a decollare anche nella chiesa cilentana, mentre s’andava instaurando un’intesa col regime cooperando contro le insidie protestanti e le minacce del comunismo.
Mons. Cammarota impresse alle attività della diocesi nuovo ritmo, pretendendo dal clero regolarità nello svolgimento dei compiti pastorali. L’irruente personalità lo indusse, a volte, a scontrarsi con alcuni sacerdoti, pagando anche di persona per lettere anonime e proteste inviate a Roma. L’intervento della Santa Sede e alcune sanzioni gli consigliarono di assentarsi per alcuni mesi dalla diocesi, recandosi nelle Americhe, dove visitò comunità di diocesani e raccolse fondi per la costruzione del seminario. Molte controversie erano animate dalle fazioni nelle quali s’era diviso il presbiterio, in particolare quella che, nel rivendicare le prerogative locali, si riconosceva nell’arcidiacono Alfredo Pinto, e l’altra, costituitasi attorno al canonico teologo Enrico Nicodemo, originario della diocesi di Policastro. A rendere ancora più inconciliabili le posizioni contribuiva la decisione del vescovo di avvalersi di sacerdoti di altre diocesi, invitati a incardinarsi, e del clero più giovane, al quale il presule concedeva fiducia intendendo valorizzarne la collaborazione per aprire la curia alle esigenze di altri contesti territoriali, scelta resasi necessaria durante l’incarico di amministratore apostolico della diocesi di Policastro. Mons. Cammarota morì a Vallo nel 1935 e fu il primo vescovo della diocesi ad essere sepolto nella cattedrale.
L.R.