Erano appena dieci i disegni della salamandrina che Gianni Menichetti, existentialiste, dernier défenseur de la nature, qualche tempo fa mise in mostra sulle pareti de “Il Mediterraneo” di Enzo Esposito, elegante e affettuoso anfitrione, blasonato promotore di eventi, che ha fatto del suo ristorante-galleria di Positano un luogo di incontri d’arte, di saperi e di sapori.
Una mostra che ritrae «in otto miniature – dice l’artista – i momenti salienti della metamorfosi e del ciclo vitale della salamandrina, anfibio assai raro, endemico della nostra penisola, che da decenni proteggo con amore. La salamandrina, infatti, è l’incarnazione del delicato e vulnerabile equilibrio di un ecosistema primevo, assediato dal lento ma inesorabile incedere dell’involutivo progresso umano, dal quale va protetta. Anche se, ormai mi sento anch’io come un animale in via d’estinzione».
La salamandrina ha una lunghezza non superiore agli 11 cm, metà dei quali sono la sottile coda; vive in climi freschi ed umidi, nascosta preferibilmente nell’humus di boschi cedui, in valli umide e ombrose, nel suolo coperto da fitta vegetazione, vicino a corsi d’acqua. Per la sua rarità e vulnerabilità è protetta da una direttiva europea, che la include tra le specie animali di interesse comunitario, la cui conservazione richiede la designazione di zone speciali di protezione e ne raccomanda la tutela come specie rara. La sua riproduzione avviene nel primo mese di primavera con una strana ritualità, un corteggiamento circolare del maschio, a mo’ di valzer, e con un misterioso metodo che non contempla l’accoppiamento, ma la raccolta con i genitali, da parte della femmina, del deposito maschile. Poi la femmina depone le uova in acque lente, piene di rami e foglie secche o dentro anfratti nascosti, quieti e bui.
«Eppure ancora oggi c’è da lottare per difenderla, rispettando il suo habitat», un ambiente che fa gola agli adoratori della teoria “cemento in progres”, camuffata, spesso, sotto false verità e stupide motivazioni di civiltà.
Un animaletto misterioso, che non si vede mai durante l’anno, che Gianni ha adottato come simbolo di difesa del “Vallone Porto”, suo luogo dell’anima naturale, in una Costiera Amalfitana sempre più assediata da un popolo di “mordi, inquina e fuggi”, da uomini insensibili ad un delicato quanto prezioso ecosistema.
È un cancello in ferro all’ansa del ponte sul torrente il confine tra la rumorosa civiltà di passaggio sulla strada statale 163 amalfitana e il silenzio della valle che si addentra in ascesa accanto al rio Porto, luogo dell’ultimo eden dove ancora vive il tempo del sogno. In questo luogo da ultima fiaba dell’età della natura si è costruita al massimo qualche tettoia di ricovero per gli animali. Quello che una volta, in alto, era il “Giardino del Principe”, con in fondo il padiglione moresco, è oggi la casa di Gianni Menichetti, poeta, pittore, artista di antico sentire, ultimo e strenuo difensore di questo avamposto della spontaneità di madre natura. Una battaglia iniziata da Vali Myers, danzatrice e pittrice australiana, alla quale Gianni fu legata con amore profondo per trenta anni, sino al giorno in cui le ceneri di Vali furono, per sua espressa volontà, sparse in quella parte dell’oceano indiano che lambisce le coste australiane. «Quando la incontrai – ricorda Gianni – fu un’apparizione. Aveva un grande carisma, una forza, un fascino che non si può dire a parole. Aveva passione, l’umanità di tanta gente messa insieme. Aveva la forza dello spirito. E mi ha lasciato il suo piglio combattivo, l’amore per la natura. Era una grande anima». Ancora oggi la presenza di Vali è palpitante in questo Giardino, lei resta lo spiritus loci della Valle dove il torrente Porto scende verso il mare delle Sirene, sfiorando quell’antico mulino Arienzo che lo scrittore e giornalista russo Mikail (Misha) Semenov trasformò in villa “per curare la sua nevrastenia con il vino e con il sole di Positano”.
Su questo Giardino Gianni Menichetti vi giunse circa 50 anni fa, ancor giovane, in compagnia di un monaco tibetano, amico di Vali Myers, la quale abitava questo luogo sin dal 1958, con il marito Rudy Rappold, architetto viennese. Erano, quelli, gli anni in cui Positano era frequentata da personaggi come il Nobel per la letteratura John Steinbeck e il commediografo Tennessee Williams, il quale si ispirò proprio a Vali per tracciare il profilo di “Carol”, il principale personaggio femminile della sua commedia “Orpheus descending”.
Lasciata l’Australia da prima ballerina del Teatro di Melbourne, Vali si era trasferita a Parigi, dove aveva conosciuto Jean Cocteau, Janet Genet, Gabriel Pommerand e il grande musicista zingaro Django Reinhardt. Quando giunse per la prima volta a Positano e scoprì, per caso, la valle del rio Porto, se ne innamorò immediatamente, mettendosi subito in moto con l’allora sindaco, il marchese Paolo Sersale, per avere la possibilità di abitare nell’abbandonato padiglione moresco che le leggende vogliono fatto costruire da Gioacchino Murat.
«Fui subito rapito dalla bellezza di questi luoghi – dice Menichetti – e dal fascino di Vali. Così decisi di venire a vivere qui, insieme a quella che sarebbe diventata la mia ispiratrice per il resto dei miei giorni». E questa valle fu la “musa ispiratrice” per Vali Myers, che la riproduceva nei suoi quadri, insieme a quella volpe, Foxy, libera di vivere il Giardino e che lei allevava come una figlia. «Sono come una volpe e fiera di sopravvivere – scriveva Vali – come quelle creature d’oro fulvo che la stupida gente chiama astute e animali nocivi.
Paziente eremita di spiritualità orientali, Gianni trascorre le giornate di lavoro ad accudire gli animali e a dialogare con le voci della madre terra, a meditare sul mutare delle stagioni che vestono e denudano gli alberi, offrono boccioli di sambuco e profumi d’erba rinata; a sera si raccoglie nella lattiginosa luce di una lampada a gas, scovata tra le mille, vecchie cose ammucchiate da un rigattiere napoletano, a scrivere poesie, ad ascoltare musica da una radio a pile, a dipingere la volpe di Vali e la salamandrina, simbolo della sua battaglia in difesa della verginità di questo canyon. Non solo, perché ora è anche la battaglia in difesa di questo piccolo, misterioso animaletto che sta scomparendo, rischiando di restare soltanto nei ricordi di studiosi e nei disegni di Gianni Menichetti.
Nel suo padiglione-casa tra i monti, in fondo al “Giardino del Principe”, non v’è corrente elettrica, l’acqua è quella delle sorgenti dei monti posti a precipizio di stalattiti, che giunge in tubi e tra rocce rivestite di capelvenere ad alimentare una vasca, quasi ninfeo pompeiano.
Da lassù lo sguardo spazia sul mare di Positano: l’isola de Li Galli si offre alla vista quasi sirena distesa a mostrare al cielo i seni nudi. Il silenzio è rotto solo dallo scorrere del ruscello tra massi e pietre levigate. «Qui – annotava Vali – possiamo vagare nei sogni e nella valle. Abbiamo grotte e rupi e minuscole creature selvagge, piante e alberi e un ruscello e cascate. Questo è difficile da trovare ovunque oggi si vada». Un’oasi naturale dell’anima dove persiste il profumo del rosmarino e quello del mare, un mondo incantato, sospeso tra i tempi della natura e l’ansia di un “progresso” che vorrebbe violentarla. «Continuano a provarci – dice Gianni – con banali pretesti di voler costruire dighe per fermare non si sa cosa, vista la tranquillità del ruscello. E’ incredibile pensare che oggi una delle imprese più difficili è lottare per mantenere intatta questa valle con il suo microsistema naturale, nel suo stato lussureggiante, con le sue specie rare di piante. Il mondo mi sta circondando ed io mi sento assediato».
È sconfortato, Gianni, da tanta insolente incomprensione: con i suoi occhi neri, profondi, incastonati in un viso da antica sapienza, scruta l’invisibile. La testa è coperta a volte da un turbante, altre da una sorta di zucchetto, sulla fronte è il segno di una improbabile casta indù, le due basette a riccioli, lunghe sino a raggiungere le spalle sono retaggi di tre lunghi viaggi in India, i tatuaggi sul corpo sono un’altra vita. Intorno è il respiro del tempo, il battito dell’universo.
Quasi pensiero ad alta voce, con tono pacato, sussurra: «Sono un eremita in un mondo selvaggio, innamorato della natura…sono un uomo libero nell’anima i cui problemi nascono col mondo esterno a questa valle».
Il suo animo è lontano dai sogni di uomini ordinari tesi a nuove conquiste di benessere, di lusso! «Il mio sogno è la mia libertà interiore che conquisto giorno dopo giorno».
Sospesa resta una domanda, la intuisce, risponde: «La morte è un sonno, perciò non so dove andrò; non so cosa c’è oltre. La vita è bellezza anche se è una grande battaglia. E in questo canyon la vita è un sogno divenuto realtà ed una realtà che continua ad essere sogno».
Si ferma, quasi alla ricerca di nuove parole dell’anima; gli occhi di profondo nero, si alzano a guardare quello spicchio di cielo sopra la Valle che mostra ancora tracce di azzurro; dal greto giunge la voce del ruscello Porto, un leggero alito di vento, a carezza di fronde dell’ontano, è accordo di parole non dette, s’ode in lontananza uno sperduto grido di volpe.
Sussurra: «A volte sto in lunghi silenzi ad ascoltare…».
Vito Pinto