«M’illumino / d’immenso / con un breve / moto / di sguardo».
Cinque versi scritti il 26 gennaio 1917 dal fante Giuseppe Ungaretti dietro una cartolina illustrata spedita da Santa Maria la Longa, paese della bassa friulana, al suo amico Giovanni Papini, con il quale collaborava al periodico “Lacerba”, dopo che il tormentato scrittore toscano si era allontanato da “La Voce” di Giuseppe Prezzolini, una delle riviste culturali più importanti del novecento.
Una poesia, che in seguito fu ridotta ai primi due, essenziali versi, magnifica espressione d’incanto per essere ancora nel costrutto solare che irrompe nel nuovo giorno, su una quotidianità di guerra, dove il soldato conviveva con il caduto in quelle trincee che bloccarono milioni di uomini per ben quattro anni. E fu durante quegli anni al fronte che maturarono i versi de “Il porto delle nebbie”, seme dell’ermetismo ungarettiano, subito accettato da quanti credevano nella poesia simbolista; ma che incontrò anche ostilità di quei critici fermi su una ormai superata tradizione. Spesso il nuovo irrompe rompendo!
Giuseppe Ungaretti era nato ad Alessandria d’Egitto da genitori lucchesi l’8 febbraio 1888 e morì a Milano nella notte tra l’1 e il 2 giugno 1970, per cui quest’anno il cinquantenario della sua scomparsa. Vita contrastata, tormentata, sospesa tra il fascismo e la repubblica, in cerca di “un opportunismo teso non al solo tornaconto personale – scrive Claudio Auria in una recente biografia per il 50° della morte del poeta -, ma di un opportunismo che, cogliendo e sfruttando le occasioni che gli si presentavano, mirava a ottenere il riconoscimento del valore della propria poesia e a realizzare il proprio compito di poeta”. E fu per questa sua posizione di “essere” che si adombrò, con conclamato dispetto, per il Nobel della letteratura a Salvatore Quasimodo nel 1959 e si rabbuiò per lo stesso Nobel conferito ad Eugenio Montale nel 1975, cui fu concesso anche la nomina a Senatore a vita. Per ben due volte l’Accademia di Svezia aveva giudicato “poco accessibile” la sua poesia, che ancora oggi resiste a dominio di sentimento folgorante. D’altra parte quel “vagabondo lucchese”, come ebbe a definirlo Giovanni Ansaldo, non si preoccupava se la sua indipendenza veniva mostrata con “strafottenza” in tutti i suoi giudizi, tant’è che rischiò di essere accusato di scarso patriottismo fascista e lo portò a sfidare a duello Massimo Bontempelli. D’altra parte la sua formazione culturale era avvenuta a Parigi, frequentando, alla Sorbona, i corsi del filosofo Henri Bergson e allacciando amicizia con Guillaume Apollinaire, Pablo Picasso, Amedeo Modigliani e Georges Braque. E conobbe anche Giovanni Papini, Ardengo Soffici e Aldo Palazzeschi, sì che ben presto entrò a collaborare alla già ricordata rivista “Lacerba”. Ebbe alcuni scambi epistolari anche con Giuseppe Prezzolini, allora Direttore de “La Voce”.
E’ il 14 maggio 1932 quando Giuseppe Ungaretti giunge nelle contrade salernitane, nel corso di quel lungo peregrinare alla scoperta del Sud, quale inviato della “Gazzetta del Popolo”. Parte da Napoli, in treno, in una “giornata d’un azzurro favoloso”, annoterà, per giungere a Paestum nel pomeriggio quando i templi sono letteralmente avvampati dal sole al tramonto, spettacolo che solo nel Cilento è possibile ammirare, mentre l’astro del giorno s’avvia a scomparire dietro l’ultima linea d’orizzonte marino… Un’emozione indicibile!
Dal finestrino di quel placido treno sbuffante nero fumo, il poeta osserva “i giardini di aranci e mandarini di Pontecagnano” e poi gli Alburni, solenni, incappucciati da un nugolo di nubi “berniniano sul quale un pittore di fantasia potrebbe mettere a sedere il Giudice finalmente sulla strada di Giosafat”; più oltre col suo immaginario poetico intravede, nel Sottano e nel Soprano un abbraccio a formare, uniti, un baco che s’alzi sulla foglia.
Ed ecco Paestum, la greca Poseidonia, dove i monumenti appaiono “così futili a vederli lontani – annoterà – degni di stare sul comò per ricordo della luna di miele”. Poi rileva come l’ambiente malsano di cui sono circondati “ha difeso per noi dalla morte il miracolo della loro forza”, che si fa dominante, sino a “farsi pura idea via via che ci avviciniamo”. Ed è la meraviglia dell’immaginifico di una storia di civiltà che resiste al tempo, ai secoli e, spesso, anche alla incuria degli uomini. Guarda, il poeta, il tempio di Poseidone e annota: “un travertino come un vetro infiammato: nel cuore della pietra brucia la luce che non consuma”. Di fronte a tanta maestà l’uomo è annientato, perché al cospetto “d’un’arte che colla sua giusta misura lo schiaccia”. Intorno è ancora abbandono di “colonne vuotate dai lunghi anni con i labirinti delle carie”. Pensieri profondi di esistenza ed essenza scaturiscono nell’animo del poeta. E annota: “Non so, ma tutte le cose che ci toccano l’anima, tutti i nostri atti purificati, sono come una terzina di Dante, una musica slanciata e imprigionata in una geometria”. Si avvicina al tempio, volano cornacchie appena vicine con il loro gracchiare e scopre, in quell’urlìo, che “la metrica del loro canto è quella del tempio”. Giunge alla porta marina dove svettano due fichi selvatici: su uno aleggia la luna all’ultimo quarto, sull’altro sosta la carezza dell’ultimo sole, che lo fa luccicare insieme al mare.
Ungaretti visita Paestum, ma anche Agropoli, Velia, dove la mente torna ai pensatori di Elea… e si chiede perché di quella nobile città del pensiero e dei suoi abitanti sia rimasta se non un po’ di polvere. Poi annota: “La vostra forma mortale era bene un’illusione, come tu dicevi, Parmenide; ma la vostra voce io la sento in questo silenzio: ciò che era immortale in voi, è immortale”. E al poeta sopraggiungono pensieri di dura quotidianità per questa terra dove “la natura, non mai domabile, insegna all’uomo, benefica nemica, come si lotta”.
Per lunghi anni e sino alla conversione alla fede cattolica il suo animo fu preso in un complesso cammino di ricerca tanto da fargli dire che la sua poesia sarebbe uscita “trasfigurata” dall’incontro con la fede. E annotava: “c’è una grande agitazione in me, ma aspetto con fiducia il sereno”. Un cammino intrapreso con successo anche da Giovanni Papini, un cammino mai completato, nonostante l’invito di Paolo VI, da Giuseppe Prezzolini che considerava la fede un dono. In fondo, nel “Discorsetto”, Ungaretti diceva: “La vita non è di per sé leggendaria, se è vita?”.
Vito Pinto