La vicenda di padre Giuseppe Feola, giustiziato da Tardio, il bandito responsabile di tre anni di guerriglia nel Cilento, rivela la portata del brigantaggio, funesto sintomo della reazione ai mutamenti e alle disillusioni del processo di unificazione. Non era una novità. Già prima del 1860 appariva un fenomeno endemico, che si dilatava durante persistenti crisi economiche. I sintomi di devianza d’individui e di gruppi assumevano connotazioni di protesta violenta che esaltava miti collettivi di vendetta contro episodi d’insopportabile ingiustizia. Tuttavia è difficile rinvenire nella criminalità di questi decenni le caratteristiche del banditismo sociale descritte da Hobsbawn e da molti suoi seguaci in Italia. Solo nei primissimi mesi dopo l’Unità da alcuni fu rispettato questo codice. Con l’intensificarsi della repressione i contadini diventano le vittime maggiormente angariate da “banditi sociali” che presentano un evidente limite: l’assenza di un programma per giustificare le loro azioni. Così il brigantaggio si trascina per anni divenendo il problema più assillante per il nuovo Stato. I funzionari notano che per le profonde radici sociali ed economiche non può esser sconfitto ricorrendo alla sola repressione. Persiste, però, il clima di emergenza, che causa disfunzioni nei comuni, dove gli adempimenti amministrativi, che avrebbero potuto assicurare un minimo di razionalità, non vengono assolti con diligenza o trascurati del tutto. Il fenomeno lascia profondi strascichi nel costume per la grave ignoranza in cui vive la gente. Tanti episodi consolidano nei funzionari governativi la sensazione che nella zona un’arretrata società sia incapace di esprime liberamente le istanze costituzionali. Uomini rozzi, ignoranti, violenti, privi d’idealità politiche sono dediti a vendette private e a ritorsioni, lotta per la sopravvivenza alla macchia.
Intanto in diocesi si protraeva l’assenza del vescovo aggravando la situazione. Privati cittadini ed enti pubblici s’impossessarono dei beni delle parrocchie e della mensa, come si deduce analizzando l’inventario dell’episcopio di Vallo stilato nel giugno del 1863. Le difficoltà del periodo ebbero gravi ripercussioni sul reclutamento del clero. Negli anni di episcopato di mons. Siciliani i preti scesero a 283; molti chierici vissero un periodo di crisi e sbandamento. I non idilliaci rapporti con le autorità civili furono aggravati dal divieto di processioni con la minaccia della sospensione a divinis per chi non si fosse adeguato. Tra i numerosi contenzioni con i parroci a causa di queste disposizioni, ad esempio particolarmente doloroso fu il dissidio con l’arciprete di Roccadaspide.
Il prefetto di Salerno il 1 novembre 1866 inviò a Portici, dove mons. Siciliani viveva in esilio, un dispaccio per sollecitarlo a ritornare. Mons. Siciliani rispose il 18 novembre 1866 e si fermò a Capaccio e a Novi Velia fino al 1872, rimandando il rientro a Vallo giacché i rapporti con le autorità municipali rimasero molto freddi. Il materiale per edificare il seminario era stato distrutto o dilapidato; inoltre, prima di partire, egli aveva consegnato al vicario 12 mila lire per acquistare il monastero di Massa, che intendeva trasformare in seminario diocesano; ma il danaro fu involato da mano misteriosa. Privo di fondi, egli si dovette limitare a ristrutturare il palazzo vescovile, spendendo oltre 35.000 lire, come si leggeva in una lapide posta nell’atrio dell’edificio.
Nella relazione inviata a Roma nel 1867 il vescovo manifestava chiaramente il suo stato d’animo circa la situazione politica in un periodo in cui le potestà “tenebrarum” avevano liberato “lupi rapaces”, che operavano come locuste nei campi di grano. Egli era rimasto in diocesi fino al 31 ottobre 1860, quando fu costretto all’esilio, protrattosi fino al 22 dicembre 1866. Riferiva che le parrocchie erano 102, le chiese non parrocchiali 39, 190 gli oratori pubblici e 16 i privati precisando che la condizione finanziaria lasciava a desiderare, con molti edifici fatiscenti, privi di arredi e di paramenti per cui sollecitò l’aiuto delle ricche chiese di Roma. I 25 monti frumentari, i 3 pecuniari ed 1 di “maritaggi” dal 1806 erano amministrati da laici; nella diocesi si trovavano 16 conventi maschili: 12 di francescani, 2 di padri della dottrina cristiana, 1 di redentoristi e 1 di trinitari; esistevano anche 2 conservatori femminili e un monastero di carmelitane. Egli aveva iniziato la costruzione del seminario per 300 alunni, ma aveva dovuto sospendere i lavori per i noti motivi politici.
Mons. Siciliani riprese con decisione l’azione pastorale fissando le regole per la soluzione dei casi morali con scansione mensile, stabilendo come periodo di sospensione i mesi di settembre e di ottobre e le sette settimane liturgicamente più impegnative; durante queste riunioni andava studiato anche il messale romano. L’ordinaria amministrazione era dedicata ad una serie di atti necessari per porre riparo alla confusione degli anni precedenti. Penosa risultava la gestione del patrimonio della mensa e delle singole parrocchie, come lamentava il canonico Ronzini a proposito di Rofrano, una volta ricchissimo. L’azione di vigilanza ottenne qualche successo, ma non tale da prevenire o risolvere un altro problema, decisamente nuovo per la diocesi. La massiccia emigrazione coinvolgeva anche i preti, i quali non potevano sopravvivere con i benefici ridotti all’osso e una congrua irrisoria.
Nel 1870 il prelato prese parte al Concilio Vaticano I e fu elogiato dal papa “al cospetto di tanti chiamato vero campione della Chiesa”. Per opporsi alle manifestazioni antireligiose egli tentò di organizzare anche il movimento laicale, che nel 1872, durante la prima mobilitazione ufficiale di elettori cattolici sollecitata dal cardinale Riario Sforza. Ma il Cilento rispose con l’abituale indifferenza, demandando al vescovo e a pochi attenti collaboratori la responsabilità di un impegno anche sociale. Del resto, le condizioni del clero rimanevano gravi. Il 29 maggio 1873, mons. Siciliani annunciò la ripresa della santa visita iniziata nel 1860; ma l’impegno più gravoso rimase la rivendica dei beni della mensa usurpati o gestiti male, mentre l’amministratore civile dei benefici vacanti si celava dietro pretestuosi cavilli burocratici. L’età, il regime di vita, il non risparmiarsi negli impegni pastorali nonostante le malattie minarono la fibra del presule. I capitolo cattedrale, con circolare del 23 ottobre 1876, annunciava la sua morte avvenuta a Rofrano. La salma rimase sepolta nella tomba del teologo Domenicantonio Ronsini, nonostante le premure dei canonici di Vallo, che avrebbe voluto depositare i suoi resti in un’urna marmorea nella cattedrale.
L.R.