Una tradizione di studi ha accreditato l’idea di un clero napoletano impegnato nel delegittimare l’Italia unita ponendo scarsa attenzione al fatto che il trapasso di regime nelle diocesi fosse avvenuto senza gradualità col passaggio dal regime concordatario all’alienazione forzata dei beni. In effetti, senza nostalgie sanfediste i presuli difendevano all’assetto sancito nel 1818; ma la loro reazione ai principi di laicità non attirò l’attenzione del basso clero e soltanto un gruppo minoritario animò un movimento favorevole alla conciliazione accanto a gruppi carbonari e garibaldini.
Gli ambienti cattolici vissero l’angosciosa tensione del clima di rivolta. Molti preti riducevano il sacerdozio a una specie di stato civile, svincolati dagli uffici ecclesiastici e con una dipendenza quasi nulla dai vescovi. Nei piccoli centri un clero intellettualmente non molto preparato era rispettato e amato dal popolo, che lo percepiva vicino perché aperto ai problemi sociali, di cui risentiva personalmente le conseguenze. I preti patrioti chiedevano cariche e posti nella pubblica burocrazia; altri desideravano la giustizia sociale per risolvere atavici problemi del sottoproletariato contadino. La prassi religiosa persisteva nelle parrocchie, tra le confraternite e associazioni, e i valori familiari non furono calpestati. Queste tematiche arrivavano al centro con toni smorzati e distorsi da esasperato localismo, segnate dalla tradizionale lentezza, le involuzioni e la stasi del processo di modernizzazione per l’arretratezza delle forze in campo mentre il degrado sociale aggravava gli squilibri. Persistevano modelli non solo economici, ma anche socio-culturali profondamente legati alla concezione mediterranea del rapporto tra potere e roba, la sola capace di garantire prestigio.
Una volta superate crisi e difficoltà più acute, di fronte ad impellenti richieste di miglioramenti materiali, le posizioni delle famiglie ai vertici della piramide sociale operarono scelte moderate e reazionarie. Mentre il clero appariva disgregato e disunito, i vescovi diocesani nei primi anni unitari sostennero i Borbone. Per questo motivo, mons. Siciliani fuggì confermando il suo orientamento reazionario col quale fu capace di mobilitare lentamente la maggioranza dei preti grazie ai mille rivoli dell’influenza religiosa e malgrado l’organizzazione ecclesiastica patisse la crisi economica. In questo clima fede, politica, istanze sociali, tornaconto personale s’intrecciavano conservando nei fedeli forme di devozione e di spiritualità che ad alcuni ricordavano il medioevo: devozione mariana, culto dei santi, racconti di apparizioni e miracoli, venerazione di reliquie, pratiche processionali, periodici pellegrinaggi e sentito culto dei morti scandivano manifestazioni pubbliche e private della fede. A persistere era la pastorale influenzata da sant’Alfonso, la cui teologia morale, sempre meno compresa e avversata dal giovane clero, giustificava orientamenti spirituali che continuavano ad essere prevalenti nella pratica pastorale. Così insistere sulle devozioni particolari contribuì a restringere gli orizzonti dei fedeli; perduto il contatto con la Bibbia, costoro partecipavano alla liturgia senza sentirsi motivati e protagonisti, preoccupati solo di guadagnare indulgenze. Ne derivò l’insistenza sulla ripetizione di pratiche che spogliò l’esperienza cristiana dell’afflato personale rivelandosi sempre più meccanica. Il carattere popolare, tendente a scadere in puerili manifestazioni di devozione cattolica, non favorì il richiamo d’intellettuali liberali, non disposti o incapaci di distinguere l’essenziale dall’accessorio.
Le concitate vicende del 1848 e la fase finale del Regno borbonico con l’impresa di Pisacane nel 1857 e quella fortunata di Garibaldi ebbero significative ripercussioni sulla diocesi di Capaccio ritenuta dalla polizia “terra dei tristi”. La misera condizione della popolazione causava la ribellione in paesi isolati e carenti per infrastrutture, situazione che consentiva libertà d’azione ai rivoluzionari e difficile la repressione. Anche il clero fu in gran numero coinvolto in queste vicende come si desume dalla imputazioni criminali addebitate a Francesco Del Buono di Eremiti, Vincenzo Parrilli di Gioi, Turibio Inverso di Piano, Ferdinando La Bruna di Massa, Pompeo De Angelis di Castellabate. Particolarmente istruttiva la vicenda di Filippo Patella, parroco di Agropoli, a capo di una colonna di insorti nel gennaio ’48 ed esule a Roma e poi a Genova. Ordinato prete nel 1842, egli aveva studiato a Novi in anni che ricordavano il dramma del 1828 e le ingiustizie patite dai membri della setta della Fratellanza. Un groviglio confuso di idee si poneva in alternativa all’assolutismo; alcuni sacerdoti si proponevano di aiutare contadini affamati e stanchi delle angherie dei latifondisti. Coinvolto nel gorgo della rivoluzione e fuggito all’estero, Patella si scontrò con l’autorità religiose per cui fu sottoposto a processo canonico da mons. vescovo Fistilli e dal vicario De Licteris. Raggiunto da mandato di arresto, evitò il carcere riparando all’estero e per questo fu condannato in contumacia.
Contro questo gruppo di patrioti si schierava il clero reazionario, come dimostrò la tragica fine di Pisacane sbarcato a Sapri. Gli ecclesiastici costituivano una componente rilevante della vita sociopolitica per tradizionale influenza sul popolo e per numero, mentre persisteva il loro stretto legame con le strategie patrimoniali della famiglia di origine. La partecipazione alle vicende politiche non significò subordinare l’ufficio religioso a quello civile, piuttosto fu un vivere da “cittadini ecclesiastici”. Non meraviglia, quindi, che per le sollevazioni del 1848 il 6% del totale dei condannati al carcere in provincia di Salerno appartenesse al clero e un numero ancora maggiore fosse annoverato tra gli “attendibili”, cioè i sospettati di azioni sovversive. E’ difficile fare un elenco preciso di quanti si lasciarono coinvolgere da questa intricata situazione, ma è sufficiente far riferimento all’esperienza di Toribio Inverso di Piano Vetrale e di Giuseppe Feola di Campora per comprendere quanto fosse complicata la situazione. I due religiosi testimoniarono concretamente le scelte di vita presentando la libertà come una esigenza dello spirito, impegno continuato da don Toribio anche dopo la sospensione; intanto insegnava a leggere e a scrivere ai fedeli analfabeti ed assisteva i bisognosi. Dopo il 1860 continuò a professare le proprie idee per cui ancora nel 1885 mons. Maglione lo accusava di non voler ritrattare circondato dalla stima dei suoi parrocchiani fino al 1895, quando fu ucciso da un sicario.
L.R.