Cantami o diva, come invocano i poeti, ma dalla musa alcuna indicazione. Nel mio laboratorio di fatica costruisco un arcipelago di croci e di fate in questa terra dorica di intellettuali di plastica, di false promesse e di inutili attese. Osservo i treni di notte, con i vagoni illuminati, che vanno in Sicilia e dalla Sicilia ritornano a Milano. La stazione è defunta, qualcuno, è già tutto previsto, trasformerà l’ex-sala Buffet in friggitoria o in vendita interpoint di vini tipici del Cilento o di formaggi. Di notte corvi ubriachi s’aggirano tra le rovine e il tempo, una nave senza timoniere s’è arenata tra i binari della ferrovia. Sirene danzanti e veline ondeggiano con i loro corpi al migliore offerente nel mio harem senza informatica e osservo rapito le loro movenze. Davanti alla porta del futuro osservo come ruota il circo dell’abbondanza e del superfluo, da cui mi chiamo fuori. Ecco le nuove idee ma io non c’entro, non sono un poeta che vince. Il mio cane bastardo lecca i miei ricordi, ammorbidisce le melodie dei miei rancori, scodinzola felici ai bambini, gioca con le ombre del giardino.
Da bambino, timido e insicuro, osservavo gli archeologi e gli artisti che, in compagnia di Zanotti Bianco, Pellegrino Sestieri e di Mario Napoli, visitavano il museo di Paestum, i Templi e l’area archeologica e tra l’azzurro del mare, che non era la pattumiera di oggi e cani randagi, draghi, lucertole e capitelli, marmellate fatte in casa, inchiostro di china e mille avventure in bicicletta, attraversavo la mia vita ricco di gloria e inquieto. La mia infanzia, i miei affari di cuore hanno scandito, nel recinto d’amore del tempio, la mia vita di pittore, anche nel futuro insieme ad amici che non mi abbandoneranno mai e che sono ben presenti nell’Archivio della mia memoria. Da grande, avevo già deciso, sarei stato l’artista della grammatica, della ceramica, del vino e dei segni della Magna Grecia, di cui mi considero l’ultimo pittore.