Capaccio è ora ferita, è un campanile senza campana e senza memoria. Paestum senza archivio è la nostra storia di chi vince, è la scrittura di chi sale sul carro del vincitore e gli grida evviva. E’ una città morta la nostra anima senza cultura. La stazione andrà a chi salta più in alto, non c’è spazio per me, valgo appena due voti di cui sono orgoglioso; il casello 21 muore, già gli avvoltoi gli danzano intorno. A questo tragico ballo, alle nomine regionali dall’alto in basso io non c’entro, vado altrove dove qualcuno ancora mi chiama. A Capaccio gli anziani raccontano fiabe sui muri della solitudine, ora che non c’è l’ex asilo che raccoglierà le gondole dei loro trascorsi. I bambini giocheranno con aquiloni di plastica, che voleranno a comando e sin dall’infanzia capiranno che la vita è una tragica farsa senza cavalli a dondolo. Mai come in questa estate mi sono sentito così estraneo a questi luoghi dove, da bambino, immaginavo di divenire un principe povero ma ricco di gloria con tante cose da raccontare. Ora non ho più nulla da dire su questi argomenti. Nel mio rifugio segreto progetto altre avventure di pittura da traslocare per ignote destinazioni dove mi auguro di trovare più rispetto per il mio lavoro di artista. Qui basta, lascio i miei affetti e i rancori della mia sconfitta. Agli onorevoli di ogni colore, a cui non mi sono mai inchinato e ai lacchè di corte regalo un libro di Pinocchio e un’artistica maschera di bronzo da usare per le loro sortite.
Luglio 2007
La prima volta che vidi la neve fu a Capaccio, ad un funerale. La sorpresa e l’emozione di sprofondare con i piedi nella neve furono superiori al dolore per il triste evento. A Capaccio c’è il salone Rizzo, piccola/bottega/museo di cultura materiale del barbiere Giuseppe Marino in cui, una volta, trovavi pennini, calamai, matite colorate, quaderni a righe e a quadretti. Ed io disegnavo interminabili storie di avventure a lieto fine. Da bambino, di nascosto, confuso tra la folla, ascoltavo i comizi di Salvatore Paolino, falce e martello, il grande sindaco delle occupazioni delle terre. I comunisti, così dicevano le mie zie, e i preti in Russia mangiavano i bambini e gli uomini potevano farsi la barba soltanto una volta a settimana. Alla madonna del Granato, su a Capaccio Vecchia, il primo maggio si andava in pellegrinaggio a piedi da Paestum con colazione al sacco. Ogni mamma offriva ai bambini le proprie specialità e le zeppole. La frittata di spaghetti, abbrustolita, quella di mia madre, mi sembrava la più buona tra le pietanze. A Capaccio riposa mio padre, non aveva nulla a che vedere con azioni, bot, giochi in borsa: se ancora vivesse non potrebbe più attraversare con la bicicletta i binari della ferrovia. Ora Capaccio e Paestum sono tagliate in due perché non esiste più passaggio a livello. E’ da parecchio che non vado a trovarlo. Trovo inutili i lumicini, i fiori e gli orpelli che mi impediscono di parlargli. Accarezzo la sua tomba e scappo come un ladro. Zio Peppino Bellelli era il medico curante di famiglia, mi curava il mal di gola e il male di vivere con il formitrol e mi parlava del ritratto di Degas di cui era discendente, mi spiegava come era imparentato con il grande artista francese che, per un anno, ha frequentato pittura all’accademia Regia di Belle Arti di Napoli dove, prima che scappasse a Firenze, inseguito dai suoi debitori, viveva il padre, banchiere, a piazza del Gesù. Nel salone di casa zio Peppino mostrava a tutti, con orgoglio, una pessima riproduzione del dipinto La famiglia Bellelli di Degas. Al convento del paese disegnai una scenografia per la commedia di Giacosa come le foglie. E poi curai ceramiche, chiodi e monete, con Paolo Peduto e il centro di Archeologia medievale dell’università di Salerno, una bellissima mostra di reperti rinvenuti a Capaccio Vecchia. Ancora non esiste un antiquarium nel santuario per la conservazione di quei reperti. Esiste una tomba omertosa di silenzio su questa storia. Non frequento più il convento e non ci andrò mai più perché nessuno va in paradiso a dispetto dei santi. Mi ricordo delle cene libanesi con Samy Fayad, scrittore galantuomo, nel suo ritiro di Capaccio e della sua casa spartana ricca di libri. Ammiravo il suo aplomb, il suo sigaro toscano e la sua incessante voglia di scrivere. Nella casa dei nonni, nell’ingresso, c’è un mio affresco a futura memoria, in cui racconto la mia storia di pittore in cerca di poesia. Amorevoli zie con il rosario, il giorno di Natale, mi chiedevano se fossi andato a messa e io raccontavo loro le prime bugie, non ho mai creduto a Babbo Natale e alla Befana. Nell’ex-asilo esiste un’associazione, Agorà, che raccoglie le memorie del paese: vecchie fotografie, documenti, materiali. E’ l’archivio di ieri ma già raccoglie le testimonianze di domani. Appena arrivi in collina scorgi da lontano il campanile del paese e ti accorgi tra i muri e i portali patrizi dell’abitazione, come il tempo ti annienta e come è nebuloso il mio futuro.