Nasce a Torchiara il 30 giugno 1823 da Donato e Orsola Cagnano. La famiglia Pavone è un esempio di borghesia colta provinciale, ottimamente inserita nel contesto socio culturale del Cilento, uno tra i territori maggiormente coinvolti nei conflitti dell’età rivoluzionaria e napoleonica, segnato sia dalla mobilitazione controrivoluzionaria dei vescovi e dei guerriglieri sanfedisti, sia di converso, da un forte sostegno di forze locali al successivo esperimento di modernizzazione del decennio francese.
Carlo e il fratello Angelo appartengono a una generazione interessata ai rapporti culturali europei, ma sono protagonisti anche di una intensa battaglia politica locale, intrecciata con contrasti municipali, tensioni sociali, banditismo incentivato da un uso quasi quotidiano della violenza privata. Negli anni dell’adolescenza nel Cilento si registrano decine di interventi delle forze di sicurezza mirati a demolire le reti cospirative e a reprimere moti liberali, come quelli del 1828 e del 1837, che hanno come inevitabile conseguenza l’arresto dello zio Domenico. All’inizio degli anni Quaranta, Carlo si reca a Napoli, per frequentare la prestigiosa scuola di Francesco De Sanctis specializzato negli studi letterari e l’istituzione didattica di Roberto Savarese, rinomato per l’erudizione in materia giudiziari, vince poi il concorso per diventare giudice circondariale. Nella capitale si inserisce in un’élite che, attraverso una decennale partecipazione alla lotta politica, ha dato forma alla tradizione liberale meridionale.
Nel 1844 un tentativo di rivolta (che porta alla disastrosa spedizione dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera) è sgominato. Quando, quattro anni dopo, il 12 gennaio del 1848, inizia la rivoluzione a Palermo, lo stesso gruppo decide l’insurrezione nel Cilento con l’obiettivo – fallito – di coinvolgere tutte le province napoletane. Si rinnova uno schema già usato nelle rivolte precedenti: i notabili locali, come i Pavone, arruolarono amici, gregari, familiari e spesso vecchi militanti dei sommovimenti passati. I cilentani, bramando a gran voce la costituzione, creano un “comando generale delle armi dell’indipendenza italiana”. Al vertice, ci sono i fratelli Pavone e altri illustri personaggi come Costabile Carducci e Leone Vinciprova. Tre colonne insurrezionali emergono nel Cilento. Una è capeggiata da Pavone: il suo ciclo operativo diventa ben presto un modello per le rivolte dell’epoca. La formazione entra in un paese, abbatte i simboli della monarchia, nomina un governo provvisorio, pretende un contributo dalla cassa comunale e poi prosegue verso altri centri. La composizione stessa della banda (professionisti, proprietari, artigiani, contadini) mostra un conflitto civile di carattere spiccatamente politico-ideologico, trasversale alle fratture sociali e familiari del territorio. Gli avversari locali sono oggetto di vendette politiche e personali, ne sono vittime alcuni capi urbani, accusati di essere i delatori dei giustiziati del 1828, ma tutti riconoscono, nel successivo processo svoltosi nel 1852, il ruolo moderatore di Carlo Pavone.
La rivolta resta isolata e l’arrivo di poderose formazioni borboniche annuncia un’inevitabile sconfitta, impedita solo dalla concessione della costituzione. Poco tempo dopo il nuovo governo costituzionale favorisce una amnistia di cui beneficiano, fra gli altri, anche i Pavone. I liberali cilentani ottengono un discreto riconoscimento nella politica della capitale, il controllo dei comuni e della guardia nazionale, determinando l’elezione alla Camera napoletana e delle loro figure di riferimento che hanno vinto in tutti i collegi locali. La rivoluzione moltiplica anche antiche e nuove tensioni, come l’atavico brigantaggio meridionale (i Pavone sono fra gli autori di un documento a favore di una decisa azione di repressione). La crisi del 15 maggio 1848, di cui sono protagonisti anche i cilentani molto presenti nella capitale, infrange tuttavia il tentativo di accordo tra la monarchia e i costituzionali. Il movimento liberale si divide: alcuni confermano un’opposizione legalitaria, i settori più radicali tentano la via delle armi in Calabria e nel Cilento. Il distretto di Torchiara è il centro dell’insurrezione. Il comando operativo è composto da Carlo Pavone, Antonio Curcio, Diego De Mattia e Filadelfo Sodano. Ritentano la marcia su Vallo senza successo. La reazione borbonica fu efficace. I calabresi sono sconfitti, i cilentani completamente distrutti: Curcio è ucciso in uno scontro con la gendarmeria, De Mattia fugge a Malta. I Pavone cercano di nascondersi, utilizzando le reti di solidarietà locali. Angelo viene scoperto dopo un anno: processato e condannato, esce di prigione nel 1854 per restare al domicilio forzoso fino al 1860.
Nel luglio del 1849 anche Carlo è catturato. Il dibattimento per i moti del Cilento (insieme a quelli per il 15 maggio e per la setta dell’Unità italiana) è tra i più importanti. Sono indagate oltre tremila persone, quattrocento vengono sottoposte a giudizio, in gran parte condannate. A Carlo Pavone è comminata la pena capitale, commutata in venticinque anni di ferri; a Nisida e poi a Procida, qui condivide un’altra esperienza fondante del liberalismo meridionale, il carcere politico. Nel frattempo, il suo distretto resta uno dei centri della cospirazione. Nel settembre 1853 è scoperto in corrispondenza con Michele Magnoni, tra gli organizzatori della futura spedizione di Sapri. Nel 1858 le pressioni internazionali rendono complicata la gestione dei prigionieri. Pavone è tra coloro che accettano la deportazione nel nuovo continente, insieme a personaggi come Poerio, Giuseppe Pica, Emilio Petruccelli, Nicola Nisco. L’esito del viaggio è opposto a quello immaginato da Ferdinando II. Alcuni familiari dei prigionieri riescono a imbarcarsi a Cadice sulla nave americana che li ha accolti per l’ultima parte del viaggio. Poi tutti insieme convincono il comandante a cambiare rotta, verso l’Irlanda, e da lì raggiungono Londra, ricevendo un’entusiasmante accoglienza dalla stampa e dalla popolazione. L’esilio di Pavone, è molto breve. Si trova in Piemonte quando, nell’estate del 1860, precipita la crisi del Regno meridionale. Il 9 luglio, dopo la concessione della costituzione da parte di Francesco II, si imbarca per Napoli, insieme a tanti altri esuli. Pavone prende parte alla nuova insurrezione cilentana dell’agosto 1860, poi assume la segreteria generale del governatorato garibaldino di Salerno. Istituita la Luogotenenza, si dimette per rientrare in magistratura. Nominato giudice circondariale nel suo Cilento, partecipa con determinazione all’ultimo atto della crisi napoletana, la repressione della resistenza legittimista e del brigantaggio.
Come i suoi coetanei del 1848, Pavone conosce bene il conflitto civile meridionale, l’intreccio tra tensioni sociali e scontri ideologici, lotte fra clan e odi familiari. Cerca di impedire abusi e prepotenze dei vincitori, scagionando persone ingiustamente accusate, e contemporaneamente contrasta sul campo le azioni della guerriglia legittimista e delle bande criminali. Riesce a sopravvivere a un attentato perpetrato a Vatolla nel settembre del 1861 e si impegna in prima persona contro la più importante formazione borbonica locale, quella partita da Roma e sbarcata nel Cilento al comando dell’avvocato Giuseppe Tardio.
La sua carriera continua come giudice istruttore a Teramo e a Santa Maria Capua Vetere, poi come questore a Caltanissetta, in anni segnati nuovamente da un duro scontro politico. In ogni caso, come buona parte dei quadri della rivoluzione, continua con successo la sua ascesa nelle istituzioni, sostenuto da Magliani e De Sanctis, assumendo la carica di presidente dei tribunali di Caltanissetta e di Lanciano. Diventa anche consigliere della Corte d’appello di Potenza e, infine, di Roma. Svolge un ruolo attivo e si impegna per la riforma della selezione e dell’organizzazione del personale giudiziario, pubblicando alcuni discorsi su questi temi. Come tutta la sua generazione è anche impegnato intellettualmente, scrive drammi e alcune pubblicazioni storiche occasionali. Legato agli ambienti della Destra storica, affronta temi come il trasferimento della capitale o il corso forzoso, ma non riesce a vincere le sue personali battaglie elettorali, risultando sempre sconfitto nel suo collegio cilentano (appannaggio dei radicali, come gli altri del territorio). Negli ultimi anni di vita, analogamente a quasi tutti i suoi coetanei, si impegna nella sacralizzazione della propria epopea, sia attraverso gli scritti sia nelle molteplici istituzioni di veterani, come quella per i danneggiati politici napoletani.
Muore a Torchiara il 25 gennaio 1899.
Lucrezia Romussi