E’ quello che ho provato al termine del Consiglio Direttivo della onlus “don Rocco de Leo” ex alunni del Seminario Diocesano di Vallo della Lucania (durante il quale si è deciso di pubblicare un libro che raccontasse le nostre esperienze in Seminario), quando mi sono reso conto di cosa avevo fatto accettando di essere uno tra gli amici disposti a scrivere. Io, che ho sempre avuto più dimestichezza con “l’aridità” dei numeri e dei computer piuttosto che non con le lettere, mi trovo ora a dovere usare la penna per raccontare agli altri l’esperienza e le emozioni vissute durante la mia brevissima vita in Seminario. E ora? Cosa racconto, ma soprattutto, come lo racconto? Nei duecento metri di strada, che separano la sede della Onlus don Rocco del Leo da casa dei miei genitori dove sono ospite (vivo e lavoro a Caserta da oltre vent’anni e approfitto degli incontri del Consiglio Direttivo della onlus per fare una visita in più ai miei genitori), non ho fatto altro che arrovellarmi il cervello con questo pensiero. Il coraggio di tirarmi indietro purtroppo non ce l’ho. Potrei provare a raccontare quello che ho provato mentre, undicenne, percorrevo i 10 metri che allora separavano la casa dove allora abitavo dall’ingresso del Seminario. Ma come si fa a descrivere agli altri la gioia e la felicità di un bambino che d’improvviso era diventato “grande”? Grande perché passava dalla scuola elementare alle scuole medie, grande perché per la prima volta si allontanava (si fa per dire) dalla casa dove vivevano genitori, fratelli e sorelle, ma soprattutto felici perché “andava a farsi prete”. I miei genitori più volte mi avevano invitato a riflettere sulla mia decisione, non perché a loro non facesse piacere avere un figlio “prete”, anzi ne erano più che lieti, ma perché mi conoscevano bene, sapevano che la mia non era una decisione meditata (come si può a dieci anni prendere una decisione “consapevole” senza essere influenzati dall’ambiente in cui si vive?). Io invece ne ero convinto, e come non avrei potuto esserlo dopo avere frequentato cinque anni di elementari ed un paio di asilo dalle suore dell’istituto Pinto di Vallo (a circa cinquanta anni di distanza ricordo ancora con piacere le mie maestre, una su tutte, suor Pia Prada a cui sono particolarmente affezionate almeno due generazioni di Vallesi) e dopo avere frequentato l’ambiente ecclesiale anche fuori dalla scuola? Ero “convinto” di quello che andavo a fare, ma soprattutto ero convinto della “carriera” che avrei voluto intraprendere: come avevo più volte ribadito alle mie maestro, al mio parroco don Peppino Fierro, a don Alfredo Renna (amico di famiglia e che poi sarebbe diventato il mio padre spirituale una volta in Seminario) e qualche volta anche all’allora Vescovo di Vallo S.E. Mons. Biagio D’Agostino, volevo “farmi prete”, comprare l’automobile (negli anni sessanta, per quanto riusciva a vedere un bambino, solo qualche prete e i medici possedevano una automobile), poi sarei diventato Vescovo, Cardinale e poi avrei fatto di tutto per diventare Papa (spero di non esser blasfemo ora per allora). A questo proposito ricordo che una volta in una rappresentazione “teatrale” alla presenza di S.E. D’Agostino impersonai proprio un Vescovo ed Egli ebbe a commentare scherzosamente con mio padre: “Hai visto? Suo figlio ha già fatto carriera.” Potrei provare a raccontare l’emozione provata al momento della “vestizione”, quando cioè mi è stata consegnata la giacca nera, con pistagnina di velluto su cui primeggiava ricamata in rilievo (se non sbaglio di colore oro) la sigla del Seminario Diocesano, il fastidiosissimo “collarino” bianco, rigido, da “prete” con pettorina nera da indossare sotto la giacca, la cotta bianca e la veste nera da indossare durante le cerimonie religiose. Potrei descrivere il grandissimo orgoglio provato quando don Lucio, prefetto d’ordine responsabile della scola cantorum, mi ha scelto per farne parte come “contralto” (Io ero in seminario, stavo per farmi prete e facevo parte della scuola cantorum del Seminario Diocesano di Vallo della Lucania: cosa si può avere di più dalla vita a undici anni?). Potrei provare a descrivere le lunghe passeggiate pomeridiane, subito dopo pranzo e prima di iniziare l’attività di studio, passeggiate che erano l’unica occasione, oltre alle visite domenicali, per noi vallesi, di rivedere seppure di sfuggita i familiari; i richiami ricevuti dal prefetto Baglivi (non so oggi cosa faccia e mi farebbe piacere rivederlo) o dal Vice prefetto Salvatore Piccininno (oggi parroco di Ascea) per avere cercato di consumare a pranzo gli “avanzi” della colazione. A colazione, e solo a colazione, ci era consentito consumare le vettovaglie che i nostri familiari ci portavano durante le visite domenicali per integrare quello che mangiavamo normalmente o forse più semplicemente per farsi sentire più “vicini” a casa attraverso le abitudini alimentari. Un po’ tutti avevamo preso l’abitudine di nascondere qualche alimento, all’interno del tovagliolo che ben ripiegato lasciavamo sulla nostra sedia, per poi consumarlo a pranzo e/o a cena, soprattutto quando sapevamo che il menù prevedeva qualche alimento a noi non gradito. Ciò era severamente vietato ed il controllo era demandato a prefetto e vice prefetto, che qualche volta chiudevano un occhio. Io però, purtroppo, esageravo perché il vitto del Seminario non l’ho mai gradito molto e da qui i richiami di Baglivi e Piccininno. Potrei provare a parlare delle interminabili ore trascorse in sala studio, più che a studiare (quattro ore circa al giorno in prima media allora le giudicavo un po’ troppe, anche se oggi devo dire che mi sono servite tantissimo) ad aspettare l’ora della merenda e della ricreazione per sfidare Nicola, Enzo o Walter piuttosto che Salvatore a calcio balilla o a ping pong. Potrei raccontare delle partite di calcio del campionato interno a cui assistevamo ogni domenica pomeriggio. Partite arbitrate da uno dei Prefetti d’Ordine con la supervisione di don Rocco che, dall’alto della finestra del suo studio che dava sul campo di calcio, a suo insindacabile giudizio, interveniva a decretare un rigore, piuttosto che a fischiare un fallo di gioco od un fuorigioco ogni qualvolta riteneva che l’arbitro avesse preso una svista (senza volere essere blasfemo, una sorta di super-moviola “de noantri”). Partite che nel periodo di maturazione delle ciliegie acquistavano un significato particolare: ad ogni rinvio il pallone colpiva uno degli alberi di ciliegie che costeggiavano il lato del rettangolo di gioco, con conseguente caduta dei dolcissimi frutti a tutto beneficio degli spettatori di turno che si lanciavano in una “arrembante” raccolta. Potrei raccontare delle lunghe giornate di silenzio dei ritiri ed esercizi spirituali, della immensa gioia provata quando don Alfredo mi ha comunicato che avrei affiancato Enzo Voza (cerimoniere ufficiale) per sostituirlo, insieme ad Attilio Salurso, quando Enzo, dopo il ginnasio, avrebbe lasciato il Seminario di Vallo per proseguire i suoi studi al Seminario di Salerno; l’emozione provata quando, durante una delle prime messe servite, don Alfredo mi “ha costretto” a leggere una delle letture (durante tutto il periodo delle elementari, con la messa officiata ancora in latino, avevo fatto il lettore in Cattedrale alla messa del Fanciullo celebrata ogni domenica proprio da don Alfredo). Potrei provare a raccontare del grande sacrificio nel rifare il letto mattina e sera. Sembrerà strano, ma anche questo mi è servito: durante il servizio militare il mio “cubo” era sempre perfetto. E se invece provassi a raccontare “dell’ammirazione/invidia” che provavo per Gregorio (purtroppo non ne ricordo il nome)? Lo “ammiravo/invidiavo” perché lui riusciva, durante le ore di ginnastica, ad arrampicarsi sulla pertica e sulla fune con una agilità e una velocità impressionanti. Io invece che sono sempre stato, purtroppo, tendente al “non magro” (suona meglio che “grasso”) e per niente agile riuscivo appena a rimanere “appeso” a pertica e fune senza avanzare di un millimetro e dopo qualche secondo riuscivo addirittura a “retrocedere” per “sopraggiunta stanchezza”. Potrei, potrei…, ma purtroppo non ne sono capace. Dovrò arrendermi e rinunciare all’impegno preso, anche se non è mia abitudine. Nel frattempo sono arrivato a casa dei miei genitori, dove mia madre, che come ogni madre si entusiasma per qualsiasi iniziativa un figlio intraprenda e a qualsiasi età lo faccia, mi ha fatto trovare una sorpresa immensa, sorpresa che al primo impatto ha suscitato, non lo nascondo, l’ilarità dei miei figli. Insieme alle mie pagelle delle scuole elementari, medie e superiori (e sulla cui autenticità i miei figli hanno sollevato forti dubbi, sono certo solo per scherzare, dubbi che nemmeno l’immensa fiducia che ripongono nei nonni sono riusciti a fugare) mi ha fatto ritrovare un quaderno. Un vecchio quaderno di 43 anni fa con copertina nera e che alla prima pagina, invece del nome e cognome riportava, con una grafia degna del migliore amanuense, la frase “Onore al Merito”. Era il quaderno sul quale Mons. D’Angelo, nostro esimio professore di matematica, faceva ricopiare i compiti di matematica svolti a chi era riuscito a prendere il fatidico “7+” che rappresentava, a quei tempi, “l’eccellenza” in termini di valutazione. Chi a fine anno scolastico, tra i compagni di classe, avrebbe ricopiato il maggiore numero di compiti sul quaderno se ne sarebbe “aggiudicata” la “proprietà”. Era quello un modo per creare un sano antagonismo tra i ragazzi ed insegnare loro ad essere in sana competizione senza problemi di sorta e sono certo che l’obiettivo sia stato raggiunto. Non nascondo l’emozione che ho provato nell’aprirlo e nel rileggere i nomi dei miei carissimi amici: Walter, Enzo, Nicola, Elio etc. Alcuni di questi li ho avuti a lungo “sott’occhio” (Elio e Walter hanno frequentato le scuole superiori a Vallo per cui è stato facile) altri come Enzo e Nicola li ho rivisti molto volentieri dopo quaranta anni circa al secondo raduno degli ex alunni del Seminario. Ma gli altri, quelli che finora non sono riuscito ad incontrare dove sono? Riuscirò a rivederli? Mi auguro tanto di sì. A questo punto gli occhi erano lucidi e mia sorella, presente insieme ai miei figli, per stemperare ha proposto un rapido “riconteggio” (termine molto di moda ai nostri giorni) del numero di compiti copiati da ognuno e quando le prove che il quaderno “era mio di diritto” sono diventate schiaccianti il solito “incredulo” ha proposto una “perizia calligrafica” ed un “supplemento di indagini” con conseguente interrogazione in matematica. E sì, forse questa è l’unica cosa che potrei raccontare perché oltre ai ricordi stupendi che ha suscitato, mi ha consentito, almeno per qualche minuto, di “scherzare” e “ridere” con i miei figli (ormai maggiorenni), cosa che purtroppo per la vita frenetica ed i problemi di ogni tipo a cui oggi un po’ tutti siamo sottoposti, si fa sempre meno frequentemente. Dopo la prima emozione l’ho riguardato più volte quel quaderno, ho riletto tracce e soluzioni dei compiti in esso contenuti ed ho notato una cosa che per l’epoca (anno scolastico 1965/1966) mi è sembrata alquanto particolare (o almeno credo): per la soluzione di ogni problema bisognava descrivere tutti i passi elementari che portavano alla soluzione e per ogni passo elementare bisognava indicare tutte le operazioni che portavano al risultato finale. Questo poteva consentire di risolvere problemi analoghi solamente modificando i dati iniziali. Bisognava praticamente descrivere l’algoritmo che portava alla soluzione. Anche questo forse mi ha aiutato nel lavoro che faccio. Chissà? Ad ogni buon conto, GRAZIE Mons. D’Angelo, anche per questo e grazie a tutti gli altri professori di quell’anno (don Luigi Orlotti, don Mario Gregorio, don Alfredo Renna…) che attraverso i loro insegnamenti mi hanno fornito le basi giuste su cui poi hanno lavorato, una volta lasciato il seminario, altri illustri professori, uno per tutti il prof. Mario Cetrangolo. Il loro lavoro mi ha consentito di “vivere quasi di rendita” nel prosieguo degli studi fino alla licenza liceale. Ma soprattutto GRAZIE a Don Rocco de Leo che, pur non essendo mai stato un mio professore diretto, tanto ha dato alla mia educazione con la sua “discreta presenza”. Che buffo! Chi l’avrebbe mai detto che un semplice quaderno potesse suscitare tanto interesse e tante emozioni?
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