Il primo vescovo della nuova diocesi è stato mons. Vincenzo Maria Marolda. Nato il 24 luglio 1803 a Muro Lucano, era un liguorino e nella congregazione aveva ricoperto prima la carica d’insegnante di lettere e poi quella di professore di teologia; in seguito, fu rettore, visitatore e consultore generale dell’ordine. Nel 1844 fu consacrato vescovo di Trapani e delegato all’erezione di quattro nuove sedi episcopali in Sicilia. Trasferito alla cattedra di Samosata, nel 1852 fu nominato amministratore apostolico di Capaccio-Vallo; morì di colera a Napoli 1’8 agosto 1854.
La cittadina di Vallo, secondo i dati forniti dalla bolla papale, presentava tutti i requisiti per ospitare il presule; “poco distante dal lido del mare”, contava più di cinquemila abitanti, “alquante famiglie nobili e ricche”; inoltre, si distingueva “per la bellezza di molte case e per la comodità delle strade, per le industrie, per l’abbondanza de’ viveri e pel commercio”. Il paese era dotato di una buona rete di strutture ecclesiastiche con “un Collegio di Missionari della Congregazione del SS. Redentore, un Convento de’ Frati di S. Francesco chiamati Cappuccini, un Conservatorio per oblate, che prendono il nome da S. Caterina, finalmente sette Confraternite laicali oltre a quattro pubbliche Cappelle, e tre altre Chiese non parrocchiali”.
La chiesa di San Pantaleone sintetizzava molte delle vicende della diocesi per quasi un millennio. In principio fu una ricettizia innumerata con due dignità: il rettore, con cura d’anime, e il cantore, che presiedeva al servizio corale e alle processioni, dignità e competenze che ricordavano le sue origini per l’azione dei monaci italo-greci di S. Maria di Pattano. L’edificio sacro, costruito probabilmente nel X secolo, era lungo 13 metri e largo 7,50; col passare degli anni risultò insufficiente alle esigenze della popolazione e del clero. Nella visita del 21 maggio 1604 mons. Morello ne descriveva le precarie condizioni; la crescita demografica dei primi decenni del Settecento fece sentire la necessità di un luogo di culto più ampio e decoroso, come attestava il visitatore nel dicembre del 1728. Un comitato di sacerdoti e di laici raccolse i fondi necessari, ma non si concordava sul luogo dove edificare la chiesa, benché la maggioranza ritenesse adatta la piazza. I lavori terminarono nel 1752 e Vallo potette disporre della nuova chiesa ad una navata. In seguito, più volte venne l’idea di realizzare le due navate laterali; nel 1835, col parere favorevole anche del sottintendente, il clero era pronto a costruirle, ma il consiglio comunale non collaborò.
Nel brevissimo tempo trascorso a Vallo, resosi conto dei problemi logistici più urgenti, mons. Marolda manifestò l’intenzione di ampliare la cattedrale, demolendo le case che la circondavano e costruendo le due navate laterali; col sostegno di Ferdinando II, di cui era stato consigliere, aveva progettato anche di aprire una strada che da Piazza Vittorio Emanuele – dove prevedeva di adattare ad episcopio un palazzo – conducesse alla Cattedrale. Le autorità civili erano consapevoli dell’importanza dell’azione del vescovo nel capoluogo di un distretto così difficile da amministrare; ritenevano una vigile attività pastorale indispensabile supporto per inculcare nella gente fedeltà alla dinastia. Il sovrano, come si riportava nella bolla, aveva insistito per la scelta di Vallo; intanto, erano pubblicizzati gli attestati provenienti dai paesi della zona e le vantaggiose condizioni offerte dalle autorità del capoluogo, pur consapevoli che la scelta avrebbe determinato scontenti a Capaccio, persistenti anche negli anni successivi. Il Decurionato fu prodigo di promesse, in parte non mantenute; la borghesia vallese coglieva dalla presenza del vescovo e degli organismi curiali l’opportunità per il prestigio del comune e i vantaggi economici, mentre i contadini ed i poveri del circondario avrebbero potuto contare sull’aiuto e sulle elemosine che i presuli erano soliti elargire.
Le speranze riposte in questa riforma per meglio gestire il distretto furono presto deluse. Nella nuova diocesi non si registrò un miglioramento della pratica religiosa, persistettero gravi disfunzioni. Il vescovo, impegnato in problemi organizzativi e nella sistemazione logistica, preoccupato di costruire il seminario e riattare il palazzo vescovile, nei pochi pesi di permanenza non riuscì a operare con la necessaria decisione e con la dovuta fermezza. La corrispondenza intercorsa tra sottintendenti e ordinario enfatizzava i problemi riscontrati nei decenni precedenti: confusione nell’amministrazione, sacerdoti poco sensibili ai doveri, seminario con gravi carenze formative, chiese fatiscenti nonostante le saltuarie donazioni del sovrano. Il sottintendente di Vallo riferiva che mons. Marolda aveva tutti i requisiti per “menare con proficuo risultato l’amministrazione di questa novella Diocesi, per il passato abbandonata”; tuttavia, nella cittadina non esistevano palazzi da trasformare in episcopio perciò il presule aveva scelto “l’infelicissimo Cenobio dei Padri Cappuccini di Massa”. Il funzionario sollecitava il ministero ad affrettare i tempi di soluzione del problema. Le vicissitudini del 1848 e l’abbandono economico della zona rendevano necessaria una decisa azione perché “le masse intere sono demoralizzate, ed il personale ecclesiastico attuale fa più male che bene”. Nello spirito pubblico persistevano disfunzioni e problemi che da tempo allarmavano autorità civili e religiose; occorreva porvi riparo in fretta perché “La religione e(ra) rispettata, ma il culto esterno poco frequentato”. Il governo era informato del mancato rispetto del precetto festivo; “moltissimi contadini che abita(va)no in campagna, poco frequenta(va)no i sacramenti” e la messa festiva per vecchiaia, pigrizia e scarsa devozione. Una statistica relativa al circondario di Torchiara rilevava che in 1.315 case rurali viveva un quarto della popolazione, mentre nelle cappelle rurali non si celebrava messa; perciò, si propose di animare in questi luoghi la liturgia festiva con obbligo di commentare il Vangelo.
L.R.