Correva l’anno di grazia 1953. (La solennità dell’incipit non è riferita quanto di seguito viene descritto). Tra la fine del mese di settembre e gli inizi di ottobre – non ricordo, infatti, con precisione la data esatta, i cinquantaquattro anni che separano quel momento da questo in cui sto scrivendo, rendono sfumati molti ricordi – all’età di dodici anni, una mattina, a bordo di un autobus, piuttosto malandato, della ditta Stromillo, lasciavo il mio piccolo paese per trasferirmi a Vallo della Lucania, in seminario. Mi accompagnava il mio povero papà. Lasciavo a casa i miei due fratelli e mia sorella, tutti e tre più grandi di me. Ma soprattutto mi allontanavo dalla mia mamma con la quale, forse più di quanto non fosse successo con gli altri tre fratelli, essendo io il più piccolo, ero vissuto, fino allora, in stretta simbiosi. Nel rivivere, raccontandolo, quel momento, avverto una stretta al cuore, sensazione che non ricordo di avere provato allora. Probabilmente una serie di circostanze: l’incoscienza dei dodici anni, la novità di ciò che per me stava avvenendo, l’attesa creata dai preparativi in famiglia: preparazione del corredo, dei vestiti ed altro, non mi facevano percepire il significato e la profonda sterzata che io stavo imprimendo al corso della mia esistenza con quell’avvenimento che, mentre mi sottraeva alle premure dei miei cari, mi collocava, in qualche modo, in una situazione che, agli occhi dei più, poteva anche apparire di privilegio rispetto a tanti altri ragazzi del mio paese e della mia stessa condizione sociale. Se devo esprimere perché sia maturata, nella mia famiglia, la decisione di farmi studiare non so proprio dirlo. Forse perché ero il più piccolo, non solo di età, ma anche di statura, anche se per la verità non è che il resto dei miei famigliari soffrissero di “gigantismo”; io apparivo anche di complessione piuttosto gracile, un po’ cagionevole. Per cui i miei cari genitori, che il Signore li abbia bella sua pace, dovettero pensare che il lavoro della terra non faceva proprio al caso mio. Ma non voglio qui annoiare con questa analisi chi avesse la ventura di leggere queste righe. Sta di fatto che chi si fosse voluto avviare, in quel tempo e nella mia zona, sulla strada di una professione liberale, come si soleva dire allora, non aveva altra possibilità che quella di arrivare almeno a Vallo della Lucania, già per la frequenza della scuola media inferiore. Ma in che modo? Era impossibile fare il pendolare, per mancanza di collegamenti adatti. Ed allora, il seminario diocesano appariva la soluzione più agevole che assicurava vitto, alloggio, frequenza della scuola, studio, la sicurezza di un’educazione umana e religiosa rigida, ma solida, il tutto per pochi soldi, la cui somma apparve accessibile persino ai miei genitori, sia pure nella coscienza che per metterla insieme avrebbero dovuto lavorare duro. E qui mi corre l’obbligo di dire il mio primo “GRAZIE”, sia pure con senno di poi, alla Chiesa locale per la presenza, nel Cilento di quel tempo, di un’istituzione, il seminario appunto, che fu uno dei poli più importanti, se non il più importante, per la rinascita culturale di tutto il comprensorio. Ma altri, di più e molto meglio di quanto sappia fare io, si preoccuperà di mettere in luce questo aspetto. Ci sarebbe da parlare dell’altro elemento che faceva orientare la scelta, “la vocazione”, a diventare prete. Questo però richiederebbe una discussione ben più profonda ed articolata, che ci allontanerebbe troppo dagli scopi dichiarati dalla presente raccolta, per cui ritorniamo al nocciolo della situazione. L’arrivo in seminario. La recinzione e il grande cancello, che ora si apre in modo automatico, quasi mosso da una mano misteriosa per chi, come me, ricorda che allora era sempre chiuso, c’erano già, quasi a delimitare l’hortus conclusus nel quale si entrava, ma attraverso il cancello piccolo. La prima persona incontrata fu il buon Pantaleo, il ciabattino-portiere con un debole per il vino. Davanti a noi l’imponente mole del seminario, con quella teoria di grosse finestre che a me sembrò interminabile. Con premura Pantaleo ci accompagnò nell’atrio e lì, ad accoglierci, c’era il vice-rettore del tempo, don Giovanni D’Angiolillo, il quale con cortesia, ma senza indulgere ad alcun fronzolo o cerimonia conciliativa per rendere più piacevole il primo contatto con quella dimora così diversa dalla casetta che poche ore prima avevo lasciato, ci accompagnò nella camerata, l’enorme stanzone nel quale erano allineate tante brandine e su una di esse fummo invitati a depositare i bagagli: materasso e una valigia contenente biancheria varia e pochi vestiti. Poi i saluti e tutto quello che avevo vissuto fino a quel momento mi sembrò lontanissimo. Non sto a raccontare come andarono le prime giornate, anche perché i ricordi sono ormai molto sfumati. Riuscii facilmente a familiarizzare con i miei compagni di classe. Una delle prime cose di cui fummo avvertiti fu il famoso silenzio. Già, si poteva parlare solo in determinati momenti, definiti ricreazione. Ci si spostava da un luogo all’altro sempre in fila per due e in silenzio; negli studi, nei dormitori, nel refettorio, sempre silenzio, sotto l’occhio vigile del prefetto di camerata, il grado più basso della struttura di comando, si fa per dire. Il prefetto era un seminarista, solitamente di quanta ginnasiale che fungeva da capogruppo. Seguiva poi il prefetto d’ordine, un giovane sacerdote, trattenuto in seminario per un anno, dopo l’ordinazione sacerdotale, quasi a rodare, prima di affidargli degli incarichi effettivi, poi il vice-rettore, a quel tempo l’ineffabile don Giovanni D’Angiolillo; all’apice c’era il Rettore, il famoso don Rocco De Leo. A prima vista questi mi impressionò per il tuo portamento che, nonostante la sua non alta statura, inspirava una specie di timore riverenziale per la severità che traspariva dal suo volto. Non lo si vedeva spesso in mezzo a noi, ma sua presenza era costante e la si percepiva attraverso il suono di una campanella elettrica con la quale egli era solito convocare in direzione i diversi prefetti di camerata o i prefetti d’ordine e, se non vado errato, perfino il vice-rettore. Si capiva a chi era diretta la chiamata attraverso il numero e la durata degli squilli della campanella stessa, una specie di alfabeto Morse. Feci poi conoscenza con quello che doveva essere il nostro “padre spirituale”, incaricato di indirizzarci sulla via della virtù, quello al quale dovevamo confidare i nostri peccati nella confessione da praticare con cadenza settimanale, almeno così ci veniva raccomandato, pratiche che, peraltro, alcune volte era problematica, in quanto non sempre si aveva materiale “peccaminoso” da raccontare. In fondo che cosa potevamo fare di male noi poveri ragazzi, in un ambiente così protetto, se non le solite distrazioni nelle preghiere? Di questi “Padri Spirituali” ne ricordo principalmente due: don Antonio Mainenti e don Alfredo Renna. L’arrivo di quest’ultimo, soprattutto, fu per noi una specie di manna, perché a cominciare da quando ricopriva l’incarico di prefetto d’ordine apportò nuovi “contenuti”, per così dire, alle nostre ricreazioni che, nei primi anni, si svolgevano nei corridoi, giocando, nella migliore delle ipotesi, o a rimpiattino o con le scatoline vuote del lucido per le scarpe. Egli infatti si adoperò per attrezzare le sale di ricreazione di alcune carambole e calcetti, organizzando anche gare e tornei vari. Ma i momenti forti della vita in seminario erano rappresentati dalla Messa quotidiana, preceduta dalla meditazione, solitamente guidata da uno dei prefetti d’ordine e che a volte, almeno per me, diventata una vera fatica, soprattutto perché avveniva intorno alle 6,30, sia d’estate che d’inverno, quando nell’ampia cappella, in assenza, a quel tempo, di impianto di riscaldamento bisognava lottare con l’aria gelida dell’ambiente. Poi la scuola e lo studio che occupavano la maggiore parte della giornata. Le ore di lezione, quasi tutti i giorni della settimana, erano cinque. Non ricordo con precisione la scansione dell’orario settimanale. Certamente questo non si discostava molto da quello delle scuole pubbliche, solo che l’aria di serietà e di rigore che si respirava era veramente particolare. Nei primi tre anni delle medie inferiori, tutti gli insegnanti, tranne quello di Disegno, il prof. Pilone, erano sacerdoti e, sia pure con le metodologie di quel tempo, insegnavano con competenza, ma specialmente con dedizione, non disgiunta da una certa severità. A tal proposito voglio raccontare un fatto che mi è rimasto particolarmente impresso. In prima media era mio professore di Italiano e Latino don Biagio Carbone. Un giorno fui interrogato in Latino e, tra l’altro, mi toccò declinare per iscritto alla lavagna il pronome dimostrativo ille, illa, illud. Tutto andò bene fino a quando il professore non mi chiese di leggere quello che avevo scritto, perché nel pronunciare il genitivo singolare spostai l’accento tonico dalla penultima sillaba alla prima, da illìus a ìllius. Mi arrivò subito un ceffone così sonoro che, a distanza di oltre cinquant’anni, al solo ricordo mi sento “friggere” ancora la guancia, ma mai più, nella vita, mi sono sognato di fare lo stesso errore. Anche il tempo dedicato allo studio, dalle 15.30 alle 20 del pomeriggio, un po’ per necessità, un po’ perché era severamente proibito fare altro, era occupato esclusivamente nello svolgimento dei compiti. Guai a farsi trovare occupati nella lettura di giornali o riviste, assolutamente proibiti. L’unico consentito, mi pare, era il settimanale “Il Vittorioso”, di cui circolava qualche copia, perché erano pochi quelli che se ne potevano permettere l’acquisto. La giornata terminava in cappella con “Le ultime preghiere” – così veniva indicato il momento sull’orario della giornata – caratterizzate soprattutto dall’esame di coscienza, consistente in una serie di domande sulla condotta avuta da ciascuno durante il giorno e lette ad alta voce, alle quali ognuno doveva rispondere nel segreto di se stesso. L’ultima di esse era: “E se morissi stanotte”? Se non eri distratto o assonnato, un brivido di paura ti attraversava da capo a piedi. Per un certo tempo, uno di noi, del quale non ricordo il nome, particolarmente apprensivo, addirittura sussultava fisicamente nel banco. I ricordi da raccontare sarebbero tanti. Evidentemente non è il momento. Mi si consenta però di soffermarmi brevemente sul significato dell’esperienza della mia permanenza in seminario, a Vallo, dove trascorsi cinque anni della mia adolescenza. Questi, oltre che fondamentali, furono fondanti rispetto alla mia vita futura, dal punto di vista culturale, umano, morale e professionale, sua sul versante della vita individuale che di quella di relazione. Si può ben affermare che, dati i tempi, tutti gli stimoli educativi che ci giungevano cadevano su un terreno vergine e altamente ricettivo, capace quindi di lasciare un’impronta durevole sui tratti della propria personalità, in modo da scoprirne poi sempre l’influsso, qualunque sarebbero stati gli sviluppi della vita futura. Certo, non sempre era facile da digerire certi aspetti della vita quotidiana, specialmente quella disciplinare. Chi di quelli che furono in seminario negli anni cinquanta, non ricorda i “biglietti di punizione” da parte delrettore, che venivano pubblicamente letti dal pulpito nel refettorio, pranzo o a cena, e con i quali venivano comunicate al malcapitato le punizioni, in caso di mancanze particolarmente gravi? E l’ispezione effettuata dal vice-rettore nei piatti, dopo i pasti, per accertarsi che fosse stato tutto consumato quello che era stato servito? E l’obbligo della passeggiata quotidiana, anche se non ne avessi avuto voglia o ti fossi sentito stanco. Nell’anno in cui fu prefetto d’ordine don Angelo Romanelli, spesso tale passeggiata si trasformava in una vera e propria tappa forzata, in quando essendo egli un camminatore specie per via delle sue gambe “fenicotteresche”, bisognava faticare non poco per tenergli dietro. Arrivammo a fare Vallo-Ceraso in un’ora, per vie mulattiere, che solo lui conosceva. Oggi, molte cose possono sembrare eccessive, ma intanto tutto concorreva a temprare il nostro corpo e il nostro spirito. In chiusura di questi brevi note, voglio esprimere, ancora una volta, il mio senso di gratitudine a tutti quelli che, in quegli anni, oggettivamente difficili, concorsero alla mia crescita umana, culturale e spirituale, a cominciare, dal compianto don Rocco De Leo, celebrata figura di educatore e docente, che, allora e poi sempre, finché è vissuto, mi ha fatto dono di particolare simpatia, comprensione ed amicizia. Alcuni di quelli che allora mi accompagnarono e guidarono nella crescita, purtroppo non sono più. Il mio cuore si riempie di commozione al pensiero di Don Giovanni Panzuto, arguto, paziente, puntuale e, non appaia irriverente, divertentissimo docente di Italiano e Latino; com’è impossibile dimenticare il suo tandem inseparabile; il buono, generoso, allegro don Armando Borrelli che, con il suo fare amichevole, spesso ti conciliava anche con i momenti più difficili della vita scolastica. E tutti gli altri: don Peppino Fierro, Mons. Signorelli, “Ciuciù” Schiavo; qualcuno lo dimentico in questo momento, ma a tutti loro vada il mio grande e grato riconoscimento. E poi i viventi: don Mario Sibilio, insegnante di Italiano e Storia in terza media, al quale devo, ancora oggi, contestare la correzione di una proposizione concessiva che non ho ancora digerito, i già citati don Alfredo Renna e don Antonio Mainenti, don Luigi Orlotti ed altri ancora. A tutti vada il mio sentito grazie. Alla fine non posso non citare i miei compagni di classe e tutti quelli che, tra il 1953 e il 1958, vissero in seminario la mia stessa esperienza. La condivisione di vita e, nel contempo, il naturale e quotidiano confronto con essi rappresentarono un altro dei fondamenti pilastri della mia formazione. Ad alcuni di loro sono ancora oggi legato da profonda amicizia, ma con tutti, i pur rari incontri, sono occasione di grande gioia. Tutto ciò non sembri una tardiva celebrazione. E’ che quando gli anni cominciano ad accumularsi sulle spalle, il valore vero del vissuto, specialmente quello più lontano, diventa più percepibile e il ricordo, soffuso di nostalgia, ne aumenta la preziosità.
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