Il più duro a convincersi, e penso che rimase sempre della sua opinione, fu “tata Cola” (Nicola Petraglia). Portava il suo nome come si conveniva nella società patriarcale degli anni ’30 del secolo scorso. Il quel tempo avevo dodici anni, cantavo in chiesa, seguivo mia nonna, Antonia Pipolo, che partecipava a tutte le funzioni religiose ed era protagonista di ogni veglia funebre che si effettuava a Piaggine. Mia madre, Teresa Petraglia, fu la più determinata ad assecondare la mia “vocazione” e non disperò mai fino a quando non mi vide varcare il portone del seminario diocesano di Vallo della Lucania. Nel ’35 facevo visita in modo assiduo a Mons. Paolo Ciniello, immobilizzato in casa. Trascrivevo per lui gli articoli per l’avvenire d’Italia, giornale cattolico che si stampava a Bologna e di cui diventai, su sua richiesta, corrispondente dal Cilento. Frequentai la 4° e la 5° elementare a Piaggine con don Biagio Bruno, maestro di vita, oltre che di scuola. Mi diceva sempre “Nicolino, tu devi studiare”. Ed io, che avevo vinto anche il primo premio di un concorso per la bella calligrafia con esposizione di foto nella bacheca della suola, ero d’accordo con lui. Al contrario di mio nonno e mio padre che volevano, a tutti i costi, distogliermi dal lasciare Piaggine e, con il paese, anche il gregge di oltre quattrocento pecore e trecento capre. Mio nonno mi apostrofava con queste parole: “Vuoi comprare il pane con la bilancia!” e mio padre, Francesco, che tutti chiamavano Carmelo, affermava che non dovevo diventare un “suga ‘gnostro!”. Una speranza si aprì quando un mio cugino, Carmelo Ciniello, riuscì ad entrare nel seminario. Fu lui che m’invogliò ancora di più. Infatti, quando tornò a Piaggine, l’estate successiva, cantammo insieme alla festa di san Barbato a Valle dell’Angelo. In quella occasione pronunciò l’omelia Mons. Enrico Nicodemo che poi divenne vescovo di Bari. Mio cugino Carmelo esternò a lui ed al canonico don Barbato Iannuzzi, molto stimato nell’alto Cilento, la mia volontà e a quel punto mia madre, determinata come non mai, si decise al passo definitivo. Chiamò don Biagio Bruno, il mio maestro, e mi iscrisse all’esame di ammissione che si doveva sostenere a Vallo della Lucania. Mio padre rifiutò perfino il denaro per la retta e per il viaggio. Alle spese fece fronte mia madre, con i suoi risparmi personali. E fu proprio don Biagio ad accompagnarmi a Vallo della Lucania a sostenere gli esami di ammissione che superai brillantemente e mi iscrissi al primo ginnasio inferiore. Il primo viaggio ufficiale a Vallo della Lucania da neo seminarista lo feci, come si usava allora, in occasione della festività di San Pantaleo, patrono della città. Visitammo la nuova struttura destinata ad accogliere i tanti giovani cilentani che, in seguito, divennero la classe dirigente di questa terra martoriata dalla storia. Il vescovo Francesco Cammarota non fece in tempo ad inaugurare l’opera che lui aveva voluto. Fu il nuovo vescovo, Mons. Raffaele De Giuli, proveniente da Domodossola, a completare l’opera. Direttore del seminario era Mons. Donato Baldo. A causa della mia statura fui messo nella camerata dai grandi. Insieme le due ospitavano circa cento seminaristi, tutti rigorosamente in abito talare. Mi impegnavo negli studi e i professori, come Don Nicolandi, mi presero a ben volere. Ricordo di due miei compagni, Attilio ad Angelo Cammarano. Il primo divenne bravo medico a Pisticci, in Basilicata. Il secondo perì nella campagna di Russia. Per me, il destino aveva riservato un’amara sorpresa: mi ammalai di tubercolosi e fui posto in isolamento nell’infermeria del seminario. Nell’anno scolastico 1937-38, il dott. Mattia D’Agosto, di Moio, dopo un mese d’isolamento per tubercolosi polmonare con continue emottisi, mi accompagnò presso uno studio radiologico di Napoli situato nella galleria Umberto I. Lì, mi fu riscontrata una grave infezione polmonare. Ritornai nuovamente in seminario e fui ancora isolato in infermeria, in quanto considerato contagioso per gli altri seminaristi. In quel tempo ebbi la visita di due predicatori laici della compagnia del santo sacerdote Don Giovanni Rossi di Assisi e con loro pregai per la mia salute. Dopo qualche altro giorno ebbi anche la visita del vescovo Monsignor Raffaele De Giuli, un uomo di grande spiritualità accompagnato dall’allora rettore Mons. Baldi. Tutti pregarono per la mia salute, ed io con loro. Purtroppo il dottor Mattia D’Agosto, molto amico di mio padre, medico incaricato per i seminaristi, proposte di allontanarmi e fu deciso il rientro a casa. Mons. De Giuli e Mons. Baldi, con grande dispiacere, mi comunicarono la decisione. A Piaggine si era già diffusa la voce della mia malattia, a quei tempi incurabile! Il medico di famiglia Gennaro Vairo, uomo molto colto edotto di Greco e di Latino e molto stimato in paese, mi disse di non preoccuparmi. Sostenne in ogni modo il mio morale, anche se ai miei genitori confidò che le speranze erano nulle. Egli veniva quasi tutte le mattine, mi faceva un’iniezione di calcio e parlava dei miei studi che non interruppi mai. Avevo contatti solo con i familiari: tutti evitavano di venire a casa per paura del contagio. Poi venne meno anche mio padre, in quanto andò in Albania per la guerra e fui più solo. Anche il parroco, don Vincenzo Pacifico, si faceva vedere solo per la comunione. Mi fu molto vicino il mio maestro don Biagio Bruno che mi incitò a non arrendermi. Nell’anno scolastico 1938-39, regolarmente, andai a fare presso il seminario di Vallo della Lucania gli esami con ottimi risultati. Mons. Baldo e Mons. Scarpa, mio prefetto di studio, mi consigliarono di lasciare definitivamente il Seminario in quanto sarebbe stato impossibile continuare a studiare in istituto con quasi duecento allievi. Piansi e pregai la Madonna di aiutarmi in modo che io con il tempo potessi ritornarvi. Tornato a casa, lasciai la veste talare poiché ormai non avrei potuto realizzare la consacrazione della mia vita ad essere un buon sacerdote. Successivamente i medici curanti Dott. Vairo ed il Dott. Ansanelli di Sacco mi ricoverarono presso il sanatorio di Mercato San Severino (SA) retto dal Dott. Messina, all’epoca un luminare nel campo della tubercolosi. Dopo due mesi di accertamenti e di cure, arrivò l’esito negativo della ricerca del bacillo di Koch. Mi dimisero prontamente perché sarebbe stato imprudente continuare la cura in tale nosocomio dove erano ricoverati molti pazienti risultati positivi all’accertamento di tale terribile bacillo. Ringrazia la Madonna e tornai a casa. A Piaggine fu una grande festa e molti parenti e amici vennero a casa per scusarsi dell’atteggiamento tenuto durante la malattia. Passeggiando nel paese la gente mi fermava e si complimentava del mio ritorno. Potei riabbracciare il vecchio parroco, Don Paolo Ciniello e cui subentrai, grazie ai suoi uffici, come corrispondente dell’Avvenire. Nel 1940 rinnovai tutti gli accertamenti presso il dispensario provinciale (l’attuale Da Procida), e fui dichiarato completamento guarito. Continuai i miei studi a Salerno. All’inizio dell’anno scolastico 1941-42 fui precettato per il servizio militare e fui sottoposto a severi accertamenti presso l’ospedale militare di Napoli. Lì mi dichiararono abile ai servizi di guerra. Partii per il Nord Italia e poi per la Russia e la Jugoslavia.
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