Questi ragazzi sono i depositari inconsapevoli di una lunga storia che dura da cinque secoli e che ha avuto uno svolgimento altalenante, nel quale è specchiata la società civile e ha ricevuto stimoli e concretezza di speranza quella religiosa. Ma per chi scrive il seminario di Vallo s’identifica soprattutto con un sacerdote, mons. Rocco De Leo, la cui responsabilità più che ventennale come rettore ha rappresentato di questa storia il momento più qualificante e felice. Ma chi è stato don Rocco, come amava farsi chiamare negli ultimi anni? A questa domanda tento di rispondere anche per pagare il mio debito di riconoscenza verso un mio maestro, col quale però non ho mai avuto una vera frequentazione, ammirato soltanto da lontano nell’intimo del mio animo per l’incidenza che ha avuto nella mia formazione. In queste righe intendo presentare l’uomo nel suo contesto, abbozzare una sorta di ritratto interiore partendo dai suoi scritti e con un riferimento costante all’esperienza che si è avuta di lui nel Cilento. In questo tentativo un valido aiuto lo fornisce il suo lavoro La Spada Schiavona, una sorta di autobiografia in veste di romanzo storico. Sono consapevole che più volte don Rocco ne ha negato il taglio autobiografico, me le sue rimostranze, questa volta, non mi hanno convinto perché don Gildo, il prete protagonista della storia, è proprio lui, quello che don Rocco avrebbe desiderato essere. Mi appare opportuno rispondere prima ad un interrogativo: perché c’interessiamo di questo prete? La risposta mi pare ovvia: perché abbiamo, almeno io ho, un debito di riconoscenza nei suoi confronti. E’ lui che si è dato da fare e si è imposto perché andassi a studiare nel seminario che è stato anche il suo luogo di formazione. Ottenere ciò, nel 1968, gli è dovuto costare molta insistenza: la conferenza episcopale salernitano-lucana si era impegnata a mandare i seminaristi tutti al regionale di Salerno e mons. D’Agostino non era propenso a fare delle eccezioni. La mia esperienza romana è stata decisiva nelle scelte, tutte le scelte, della mia vita; perciò gli sono pubblicamente riconoscente. Ma ritengo che la mia gratitudine debba essere corale ed espressa da tutti coloro che lo hanno avuto docente in seminario e nelle scuole superiori di Vallo. Se il diploma e la laurea hanno per il passato fatto veramente la differenza nella possibilità di progredire nella scala sociale cilentana o emergere nella società italiana, l’opportunità di sperimentare una grazia, nonostante il disagio psicologico, il timore, a volte la paura, di avere a che fare con un professore così severo. La scuola, protagonista ed unico strumento di ascesa sociale nel Cilento, ha trovano in lui, per molti decenni, l’educatore, il formatore, il prete che ne hanno esaltato il ruolo e le funzioni di formatore. Ritengo, però, che parlare soltanto di riconoscenza non consente di comprendere a pieno l’uomo Rocco De Leo. Infatti, mi sento di sostenere che la sua vicenda personale costituisca una sorta di spia per cogliere la persistenza della questione meridionale anche nella Chiesa italiana. Un don Rocco nato ed attivo nel Centro e nel Nord d’Italia sarebbe stato certamente valorizzato di più, avrebbe – come si è soliti dire – fatto una brillante carriera, come tanti vescovi e cardinali suoi compagni di studi a Roma e che ne hanno conservato un deferente ricordo, soprattutto della sua capacità di emergere negli studi e di segnalarsi per la disponibilità a manifestare le sue idee, difendendole fino a prova contraria. Anche don Rocco, come del resto tutti noi, è vissuto ai limiti della grande storia. E’ questo un limes mobile, sempre in evoluzione, mai astatico o insormontabile perché sono le occasioni ed il modo di porsi rispetto ad esse che fanno la differenza. Ad esempio, don Rocco ha vissuto l’ultimo suo anno romano in un seminario che ospitava, con gravi rischi, coloro che avrebbero dato vita ai primi governi dell’Italia repubblicana. Alla proposta di rimanere nella capitale per continuare i suoi studi di filosofia e, quindi, avere la possibilità di seguire le evoluzioni della grande storia civile ed ecclesiastica, ritorna nel periferico ed addormentato Cilento per svolgere la funzione di professore di scuola media nel seminario diocesano; precipita, cioè, nella piccola storia, che gli segnerà per sempre la vita interiore e la vicenda esteriore: obbedisce, nonostante le allettanti proposte, mentre un sì al professore della Lateranense gli avrebbe consentito di tracciare un altro iter personale. Dopo il primo anno di dolorosa obbedienza per alcune situazioni registratesi in seminario, inizia in diocesi da protagonista la sua attività con un crescendo di responsabilità: professore di religione presso il liceo, predicatore, teologo, succedendo a mons. Nicodemo che tanto lustro aveva dato alla diocesi, rettore del seminario collaborando con due vescovi dallo stile così diverso. Viene nominato rettore del seminario regionale; intanto diventa un gettonato predicatore di esercizi in Italia. Ritorna in diocesi e sperimenta una difficile ricollocazione pastorale fino al 1980 quando, per la morte dell’amico don Fulvio Parente, viene nominato da mons. Casale vicario generale. Egli ricopre l’incarico fino ai primi anni di episcopato di mons. Favale. Dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso inizia l’ultima fase della sua esperienza, che possiamo chiamare kenotica, come si desume dalla biografia tracciata da don Damiano Modena. In questo quindicennio circa, alla ridotta presenza in pubblico supplisce con una presenza più discreta, ma per alcuni aspetti ancora più efficace. Egli si dedica alla pubblicazione di saggi teologici, frutto del suo impegno di docente presso l’istituto di teologia di Vallo, e di lavori letterari di vario genere. Sovente questi lavori hanno per lui una funzione terapeutica, appunto il tentativo di apportare rattoppi di panno nuovo su vestiti consunti, come titola il capitolo XV del suo La Spada Schiavona. Per tentare di capire don Rocco nel profondo penso che bisogna rifarsi a questo lavoro nel quale egli descrive quello che avrebbe voluto fare o ciò che percepisce come un vuoto nella sua esperienza esistenziale: infatti, il prete protagonista è un parroco, il quale si segnala soprattutto per una qualità, la sua capacità di dialogo. Nel saggio sono presenti temi che don Rocco col passare degli anni ha trasformato in una costante delle sue prediche e delle sue conferenze, come, ad esempio, la denuncia del clericalismo trionfante o il dovere scegliere l’uomo rispetto alle esigenze della curialità, come si evince in particolare dal suo coraggioso testamento spirituale. La spada schiavona è perciò il romando di un prete fra il già della fede, che ha sempre accompagnato in modo cristallino la vita di don Rocco, ed il non ancora della sua esperienza storica, vissuta in un ambiente che con difficoltà comprende Gildo-Rocco, il quale – per la verità – sovente per le posizioni che assume non riesce a vivere in sintonia con il suo ambiente. Questa incomunicabilità la possiamo dedurre plasticamente proprio dalla copertina del romanzo: il senso del disagio si evince dall’assenza di riferimenti al Cilento in quel signore e in quel mare in tempesta, che revocano personaggi ed ambienti nordici! L’autore conferma la profondità di questo iato con l’affermazione a p. 28 “Fra tutta quella gente del nord l’uomo del sud non percepì alcun segno di rigetto. Si sentì, invece, inserito a pieno titolo nella circolazione di una fraternità senza etichette”, che contrasta con uomini e cose del Cilento, segnati da un contesto troppo stretto per la limitatezza delle esperienze e delle prospettive, caratteristica che accomuna al popolo anche i preti, come denuncia a p. 94. L’anima, la psicologia del custode della spada schiavona non trovano riscontro e comprensione nelle terre assolate, aride ed isolate del Cilento. Alla fine, nonostante i numerosi tentativi, programmi, entusiasmi bruciati e dolore interiore, Gildo deve confessare il proprio sostanziale fallimento: il profeta della spada, che taglia la verità in due senza cedere a compromessi, è costretto a farla inabissare nel mare. Gildo vive nel Cilento fra il Sele e Palinuro, se chiede all’amico di buttare la spada nel mare che separa Amalfi da Capri vuol dire che intende comunicare al lettore un messaggio: cosa ha rappresentato per Gildo-Rocco la costiera amalfitana col suo capoluogo? Un indizio, un’opportunità, un altro mancato incontro di don Rocco con la grande storia e, di conseguenza, il proseguimento dell’esperienza nel Cilento! Riferivo prima del rifiuto espresso ad una lettura autobiografica del romanzo; ma per chi lo ha conosciuto risulta impossibile non rivederlo nella descrizione del liceo classico che fa a p. 10, nei tic di Gildo che è solito pestarsi il piede sinistro (p. 12), nel bellissimo rapporto filiale con la mamma, nei cognomi utilizzati, nella figura della prozia ovvero la zia provvidenza, nel progetto di Dio che gli si era svelato nell’incontro con giovani preti, nel padre passionista specializzato nel guidare i corsi di esercizi spirituali e che egli ha invitato quando era rettore del seminario minore, nel pregiudizio del pericolo legato alla richiesta di sostenere gli esami di maturità, nella descrizione del seminario romano (pp. 31-ss) e della devozione filiale alla Madonna della Fiducia, nella descrizione (pp. 37 e 39) di mons. de Giuli, a proposito del quale annota a p. 88: “arrivò improvvisa la notizia del trasferimento di una diocesi del centro-Italia di quel suo visibile sostegno e punto di riferimento”, che è tutto un commento sulle difficoltà implicite nell’esperienza del 1946-7. Che dire poi di tanti altri personaggi conosciuti anche dagli alunni che hanno frequentato il seminario di Vallo, dal sarto spilungone ed ingobbito, che cuciva le zimarre, ai centoni di preti come l’amico don Fulvo o mons. Quadri, suo compagno in seminario (p. 320), oppure del santuario di Novi descritto come un cantiere e dottor Soriano, suo fervido ammiratore, fino alla descrizione della morte di Paolo VI, che Gildo-Rocco “amava intensamente non solo perché vicario di Cristo, ma anche per la squisita sensibilità dell’uomo e la sincera apertura al dialogo con credenti e non credenti” (p. 158). A questo proposito ricordo che quando Montini fu eletto si era nel pieno degli esami scritti e don Rocco ed il negozio di ottica di via Mercanti dove andavano per fornirsi di occhiali i seminaristi, dopo la visita oculistica. Don Rocco usa il romanzo anche per cercare di giustificare le critiche di cui è stato oggetto, a partire da quella costante che lo percepiva fuori contesto nel Cilento. Infatti, a p. 215 un giovane dice a don Gildo “ho l’impressione che ci sia qualcosa che vi impedisce di essere un vero cilentano e che vi mette in soggezione”. Mentre, a proposito dell’accusa di eccessiva erudizione, così si difende: “Quando mi vengono alla labbra citazioni letterarie, non lo faccio mai per confondere qualcuno. Vorrei potere parlare con speditezza il nostro dialetto, vorrei essere un prete popolare, vorrei comunicare il gusto della vicinanza con quelle pacche sulle spalle che lasciano il segno, vorrei inserirmi con disinvolture… ma non ci riesco. Perché non mi aiutate a superare queste difficoltà temperamentali?”. Anche per la comprensione del carattere di Gildo-Rocco sono interessanti i riferimenti del romanzo. Si legge infatti che Don Gildo, nonostante le apparenze, era un romantico (p. 17), che era dotato di una volontà non arrogante ma forte come diaspro (p. 25), di conseguenza egli era tenace nei suoi punti di vista (p. 35); anzi, con quel suo temperamento esplosivo, che lo induceva talvolta a manifestazioni non del tutto controllate dei suoi punti di vista, spesso si sentiva in colpa nei momenti di raccoglimento nella grande cappella e si macerava interiormente per potere entrare senza resistenza nel flusso del comune modo di pensare (p.50). Ne deriva perciò che l’impatto con la comunità diocesana di elezione non era stato privo di sofferenza, nonostante l’affettuosa accoglienza del vescovo (p. 59). Nonostante questi limiti, dei quali è consapevole don Gildo, don Rocco ha voluto rimanere nel Cilento. Dopo avere letto il suo testamento, in coscienza dobbiamo dire: meno male che si è fermato in diocesi. La sua scelta ha reso la chiesa locale più ricca. Lo può testimoniare chi lo ha avuto per rettore: tanti successi professionali nella vita vanno ascritti anche al suo magistero, alla sua partecipata azione di educatore.
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