Il Decurionato di Vallo, nella seduta del 20 gennaio 1855 e nell’altra del 18 aprile 1856, sollecita il trasferimento del Seminario nel capoluogo del circondario, per cui manifesta l’intenzione di destinare a tale scopo il Conservatorio di Santa Caterina. Ma nella seduta del 7 settembre 1857, delibera doversi costruire nella Piazza Grande, su disegno dell’architetto Giustino Pecori di Felitto, apposito edificio. Intanto mons. Giampaolo, costretto a denunciare la difficoltà nel riscuotere molte delle rendite destinate al mantenimento del seminario, avvia un carteggio con l’Intendenza di Salerno per ottenere che le Teresiane, ospitate nel conservatorio di Santa Caterina siano trasferite altrove per potere destinare l’edificio a seminario. Egli fa approntare un preventivo di spesa per le necessarie trasformazioni allo scopo di potere dotare il centro diocesi “in brevissimo tempo, con facilità e con ispese non eccessive” di un seminario. Con 11808, 50 ducati si sarebbe potuto arricchire Vallo di un episcopio e di un seminario con tre nuove camerate nel braccio orientale dell’edificio, sufficienti per ospitare tutti i seminaristi della diocesi. Il 14 luglio 1856 il presule invia al direttore degli Affari Ecclesiastici la richiesta di trasferimento del seminario da Novi a Vallo presso il conservatorio di S. Caterina, ma non riesce a munirsi del parere favorevole dell’Intendente di Salerno sulla destinazione delle religiose. Anche mons. Siciliani è intenzionato a risolvere, una volta per tutte, il problema. Appena giunto in diocesi, nel 1859, pur autorizzando la spesa per costruire una camerata con corridoio ed oratorio a Novi, esprime tutte le sue perplessità alla Congregazione romana circa un seminario ubicato distante dalla residenza del vescovo. Egli è pronto ad acquistare il convento di Massa per trasferirvi il seminario, dichiarandosi pronto a chiudere quello di Novi anziché lasciarlo nello “stato attuale”. Già nella sua prima circolare ai fedeli ed al clero egli denuncia il fatto che la nuova sede vescovile di Vallo sia priva di una Cattedrale adeguata, del seminario e dell’episcopio. Per la povertà della mensa vescovile, privata di tante rendite, egli non ha la possibilità di fare fronte alle spese necessarie; tuttavia non accetta di starsene “con le mani alla cintola scoraggiato dalla deficienza del danaro” ed annunzia di volere porre la prima pietra nel “suolo acquistato” affidandosi alla generosità della popolazione. Egli auspica d’inaugurare la nuova sede “al più tardi il 63” impegnandosi che “per ciascun circondario sarà mantenuto un giovane nel Seminario a piazza franca fino all’epoca che sarà ordinato sacerdote”. Il presule propone di procedere all’ammissione per concorso su decisione dei sacerdoti dei singoli vicariati a riprova dell’importanza che deriva alla società da “un ben ordinato Seminario”. Il Municipio di Vallo nega a mons. Siciliani l’area nelle vicinanze della Piazza principale per il seminario concessa al suo predecessore. Così mons. Siciliani decide di edificarlo nel giardino che mons. Giampaolo aveva acquistato dalla famiglia Perrelli, attiguo al palazzo che si sta adattando a sede vescovile. Egli pone la prima pietra il 15 aprile 1860 ed alla cerimonia partecipa il corpo Municipale, il Sottintendente e tutte le autorità residenti nel Capoluogo del Distretto, la guarnigione della Reale gendarmeria, il ceto dei galantuomini, la banda musicale, il clero, i francescani di Massa, le confraternite ed una grande folla accorsa anche dai paesi vicini. Il giorno dopo, nella relazione al Ministero della Pubblica Istruzione mons. Siciliani scrive: “Vallo non ha mai assistito ad una festa più clamorosa, più entusiastica e più universalmente sentita”. Ma non potette proseguire i lavori perché costretto all’esilio per sette anni in seguito ai rivolgimenti politici connessi alla spedizione dei Mille. Il presule vede frustrate le sue intenzioni anche dall’atteggiamento dell’amministrazione di Novi. Nel gennaio del 1861 il sindaco invia una lettera ad Eugenio di Savoia, luogotenente del regno, per avanzare pretese sul monastero dei Celestini adibito a seminario, oltre ad iniziare un’annosa rivendicazione circa la gestione delle entrate del santuario del Gelbison con la pretesa di riscuotere le rendite per dotare le ragazze povere del paese. Intanto, per i disordini collegati alle concitate vicende seguite all’Unità e per l’estensione al Mezzogiorno delle leggi vigenti nel Piemonte circa i beni ecclesiastici, il seminario perde molte delle sue rendite. Il regio sub-economo della diocesi, nel febbraio del 1864, chiede notizie sugli affitti delle cinque badie la cui rendita è stata assegnata al seminario di Novi. Le autorità civili hanno facile gioco anche perché il vescovo è costretto all’esilio per alcuni anni in Pozzuoli. La confusione del periodo determina una grave crisi nel seminario diocesano. Così, se nel 1859-60 gli alunni sono ancora 113, subito dopo si procede al suo scioglimento e non vengono riscosse nemmeno le rette pendenti. Nel 1868, alla riapertura si presentano 41 seminaristi; l’anno successivo sono 50 e nel 1870 scendono a 30; sono 34 nel 1872 per risalire nel 1873 a 44 e 50 l’anno successivo. In questi anni il bilancio, in genere, si chiude in pareggio, la situazione continua a mantenersi stazionaria anche nel decennio successivo: nel 1876 gli alunni sono 42, oltre ad 8 esterni, nel 1883 gli interni sono appena 15 e gli esterni 10 nelle classi ginnasiali e 10 in quelle elementari. Nell’anno scolastico 1886-87 gli interni passano a 35, mentre gli esterni sono 15 alle ginnasiali e 6 alle elementari; il relativo deficit di gestione viene ripianato dal vescovo. La vita del seminario risulta quindi abbastanza precaria per le difficoltà economiche nelle quali si dibatte l’ente. I responsabili della formazione ed i docenti fanno ciò che è nelle loro possibilità per approntare un programma di studio adeguato alle necessità dei tempi, sia per chierici in grado di difendersi dai pericoli del secolo, preoccupazione costante del rettore, sia per potere tentare un dialogo, anche se limitato, con la cultura moderna. Anche nelle mura del seminario si ripercuotono le conseguenze dell’evoluzione delle condizioni sociali, la cui lenta, ma irreversibile trasformazione si riflette anche sulla complessa figura del sacerdote. Diventa sempre più assillante il problema della selezione delle vocazioni proprio a causa delle carenze culturali. Al calo delle vocazioni tra il 1861 ed il 1880, conseguenza della crisi religiosa legata alle vicende risorgimentali, corrisponde una lenta ripresa nell’ultimo ventennio del secolo grazie anche al realistico adattamento alla nuova situazione della società ed ai diversi rapporti da instaurare con lo Stato liberale. Alla fine del secolo, in concomitanza con la generale ripresa della vita cattolica anche nella nostra diocesi, si determina un certo assestamento della selezione delle vocazioni sacerdotali, perciò, i quadri ecclesiastici non sono troppo distanti dai bisogni religiosi della popolazione e dalle esigenze espresse da una rinnovata attività pastorale. Mons. Maglione, convinto che molte disfunzioni in diocesi fossero da attribuire al “Seminario Diocesano mal diretto, e male amministrato, perché libero dalla continua ispezione e sorveglianza del Vescovo, essendo sito in Novi Velia (…) il che ha sempre causato la pessima educazione morale, e scientifica dei giovani chierici, che poi ascesi al sacerdozio hanno fatto cattiva prova. L’unico ed efficace rimedio a tanto disordine è di portare il seminario sotto gli occhi del Vescovo trasferendolo nel soppresso Convento dei Cappuccini di Massa Villaggio di Vallo, non esistendo all’uopo altro locale, lodevole pensiero ancora del defunto Mons. Siciliani”, pose il problema alla Congregazione romana competente. Pertanto, nell’ottobre 1881 il presule aprì il seminario nell’ex convento dei cappuccini di Massa, affidandone la direzione al canonico Giovanni Speranza di Laureto. In seguito, nominato questi arcidiacono della Cattedrale e provicario generale, la responsabilità passò al canonico penitenziere Francesco Saverio Lombardi di Rutino. Nel 1893 egli fece approntare una bozza di contratto per l’acquisto dell’ex monastero. Il comune di Vallo s’impegnava a versare nei primi tre anni un sussidio di due mila lire a condizione che la scuola fosse aperta anche all’esterno. Il presule accettò, senza trascurare la finalità principale di un’adeguata preparazione dei seminaristi; perciò, nel luglio del 1894, invitò il rettore a curare di più lo studio del latino, stabilendo di non ammettere alle classi di teologia chi non si sottoponesse al relativo esame, disposizione rivelatasi particolarmente severa se lo stesso vescovo, sulla minuta della lettera, annotava “ordini dati per Seminario, e poi sospesi”. Nell’assenza totale di scuole pubbliche secondarie nel circondario di Vallo, questo istituto costituiva l’unica occasione per studiare, maturando culturalmente e civilmente, come ha annotato nel suo diario un ex-alunno emigrato negli Stati Uniti. Il successore, mons. Jacuzio, s’impegna a fare riconoscere “ente Seminario” l’ex Convento dei Cappuccini di Massa con decreto reale e dedica molta attenzione alla sua ristrutturazione per migliorarne la funzionalità. Attento alla qualità degli studi ed all’efficienza della disciplina, fa costruire sulla cappella una nuova grande camerata e sostituisce l’antica ed angusta scalinata, realizzata dai frati, con una di marmo. Sotto la direzione del rettore, mons. Scarpa, si procede all’ammodernamento dell’edificio ponendo riparo agli inconvenienti lamentati dai visitatori apostolici. Gli sforzi dei vescovi incominciato ad avere qualche risultato. Il seminario funziona con crescente regolarità divenendo un punto di riferimento anche per la borghesia locale, che vi manda i figli a scuola. Nell’anno scolastico 1911-12 i seminaristi sono 10, dei quali 5 diaconi ed un prete, mentre i convittori sono 34. Alcuni alunni pagano soltanto le tasse scolastiche perché frequentano da esterni: 15 di Vallo, 6 di Massa ed uno di Angellara. Non solo il rettore, ma anche altri canonici, come l’arcidiacono Paolino, mons. Pietro Paolo Di Ruocco, insegnano materie classiche e discipline teologiche, mentre due laici impartiscono lezioni di matematica. Gli stipendi ed i salari per questi docenti ammontano a 3425, 45 lire su una spesa complessiva di 14509, 43. Una situazione simile si registra per l’anno successivo ed i disavanzi sono ripianati dal vescovo. Col passare degli anni il numero dei seminaristi, dei convittori e degli alunni esterni che frequentano le scuole del seminario di Massa aumenta considerevolmente, perciò mons. Cammarota decide di raddoppiare la capienza dell’edificio per portare i posti-letto a 100. A tale scopo fa gettare le fondamenta per una nuova ala nel giardino a fianco alla cappella; ma le trattative per acquistare il terreno necessario a rendere più spaziose le dipendenze e garantire una maggiore privacy alle attività dell’istituto non vanno a buon fine. Così, con decisione improvvisa, riprende e porta a compimento l’antico progetto di mons. Siciliani nei pressi dell’espiscopio, inaugurando il nuovo edificio a Vallo nel 1930. Per non lasciare l’edificio di Massa inutilizzato, mons. Cammarota intraprende le trattative con mons. Conforti, fondatore dei Saveriani. Il 7 ottobre 1930 i due prelati firmano la convenzione con la quale alla congregazione si concede l’uso della casa come scuola di allievi missionari. La presenza di questi religiosi risulta molto vantaggiosa per le attività pastorali di tutto il circondario; infatti, essi si segnalano per la caritatevole assistenza alla gioventù suscitando parecchie vocazioni, mentre sono disponibili ad assumere impegni pastorali nella diocesi, assistendo alcune parrocchie ed aiutando i parroci nell’animazione liturgica e nella predicazione, collaborazione protrattasi fino al 1967 quando, per motivi interni alla congregazione, si decide di trasferire a Salerno, in un nuovo edificio, il centro delle attività per il Mezzogiorno. Probabilmente, il merito maggiore di mons. Cammarota fu l’avere risolto l’annoso questione del seminario, le cui disfunzioni datavano fin dalla sua fondazione a Diano nell’antica diocesi di Capaccio. A continuare la sua azione in favore del seminario fu il suo successore mons. De Giuli, la cui guida pastorale risultò quanto mai utile per la diocesi nei difficili anni Trenta e, successivamente, durante la guerra. Egli profuse molte energie per animare la vita del seminario. Nel 1945, per ovviare al limitato numero d’iscritti, accettò anche i ragazzini di quarta e quinta elementare che, a giudizio dei parroci, presentavano segni di vocazione. Il rettore, don Fulvio Parente, nelle riunioni del “caenaculum”, fece oggetto delle riflessioni al clero il problema vocazionale, sollecitando ad impegnarsi per il buon esito dell’opera del buon pastore, della giornata del seminario, della circolazione del giornalino “Ostia” per zelatori, della costituzione di borse di studio. Il vescovo lamentava anche il fatto che il seminario, inaugurato nel 1930, non avesse ancora la cappella, sistemata in modo provvisorio, nell’attesa di terminare quella progettata e nonostante le ingenti spese non completata per le continue infiltrazioni d’acqua nelle fondamenta. Mons. De Giuli era certo della comprensione del clero, anche quando aveva “dovuto esercitare il comando, richiamare, insistere, punire”. Egli intravedeva “un risveglio promettente e consolante” tra i sacerdoti, come dimostravano le riunioni del “Coenaculum”. Nel 1945 il presule dovette procedere alla riorganizzazione degli uffici di curia, in precedenza dominati dalla carismatica figura di mons. Nicodemo, canonico teologo e vicario generale, nominato l’anno precedente vescovo di Mileto. Il presule chiese la collaborazione di sacerdoti che, in seguito e fino agli anni Ottanta, avrebbero svolto in diocesi funzioni rilevanti. La nomina di Nicodemo a vescovo rese vacante l’ufficio di teologo nel capitolo cattedrale, per cui il 24 luglio 1945 fu bandito il concorso. Partecipò, risultando vincitore, don Rocco De Leo, giovane sacerdote ordinato nel 1943, dopo avere frequentatoil Pontificio Seminario Romano Maggiore, dove si era segnalato per la sua preparazione teologica e filosofica, al punto di vedersi proposta da padre Cornelio Fabbro la collaborazione come assistente alla cattedra che teneva presso l’Università Lateranense. Egli prese possesso dell’ufficio il 28 ottobre, alla presenza di mons. Nicodemo, il quale in questo periodo fu ripetutamente invitato a ritornare in diocesi, attestato della stima di cui godeva presso sacerdoti e laici. Il nuovo canonico teologo lentamente sostituì mons. Nicodemo in molte attività di animazione culturale, iniziando dall’azione cattolica. Mons. Raffaele De Giuli, il primo presule a fregiarsi del titolo di vescovo di Vallo della Lucania, lasciava nel Cilento un felice ricordo di amore per i poveri e d’impegno pastorale anche da amministrare apostolico, responsabilità durata fino al 22 gennaio 1947, quando comunicò la nomina di Domenico Savarese a successore. Della complessa situazione della diocesi, mons. Savarese percepì soltanto alcuni aspetti. Oggetto principale e continuo della sua diocesi fu il seminario e, di conseguenza, il problema delle vocazioni in una diocesi nella quale la scarsità di clero era divenuta drammatica. Delle 107 parrocchie, 26 erano senza titolare, mentre nel 1947 era stato ordinato un solo sacerdote, un altro si prevedeva dopo tre anni. Il presbiterio era composto di meno di cento ecclesiastici, dei quali diversi ex religiosi o preti provenienti da altre diocesi e molti anziani, mentre fino al 1954 sarebbero stati ordinati, al massimo, 16 chierici, in una diocesi che contava 604 chiese e cappelle. Il presule provvide subito a stilare lo statuto per gli zelatori e le zelatrici dell’opera vocazioni ecclesiastiche, facendo tesoro dell’esperienza di rettore ad Aversa, ed impartì disposizioni sul seminario, confermando di accettare ragazzini di quarta e quinta elementare, anche se sanciva la chiusura del collegio. La determinazione con egli affrontò questo problema si collegava alle condizioni del seminario tra il 1946 ed il 1947. Mons. Savarese nell’azione pastorale assunse un atteggiamento di palese intransigenza, apparendo più un burocratico ispettore, che un vescovo carismatico. Durante il suo episcopato si determinarono profondi contrasti, con una scia d’incomunicabilità tra clero e curia, di cui rimasero copiosi strascichi anche in seguito. Il presule, fin dal primo numero, non esitò a denunciare sul “Bollettino” comportamenti ritenuti deplorevoli, rendendo di pubblico dominio i provvedimenti presi contro i sacerdoti inadempienti. Con molta decisione mons. Savarese provvide alla scelta dei suoi più stretti collaboratori mentre continuava la riorganizzazione del seminario. Nella notifica al clero comunicava che per l’anno scolastico 1947-48 gli alunni sarebbero stati 86, dei quali 41 nuovi, oltre ai 17 che frequentavano il regionale di Salerno. Una delle svolte più indicative fu l’enfasi nella formazione culturale: “Cinque ore di scuola al giorno, quasi altrettante di studio, l’ora di preghiera mattutina e vespertina, le allegre corse nel cortile” per mons. Savarese dovevano scandire il ritmo della vita nell’istituto. L’impegno per il seminario rimase una delle preoccupazioni principali; per il suo rilancio il presule sollecitò co0n insistenza la collaborazione dei parroci. Soddisfatto della gestione interna, egli nominò rettore il canonico teologo, che continuò a curare sul “Bollettino” la cronaca delle attività svolte nell’istituto, aggiornando sul numero degli alunni, sulla statistica relativa alle parrocchie, evidenziando, per volere del vescovo, quelle che non ne inviavano. Il rettore del seminario diocesano, don Rocco De Leo, grazie anche all’esperienza avuta a Roma negli anni di formazione, organizzò la vita dell’istituto in modo da trasformarlo in un centro capace di dare uniformità d’indirizzo agli allievi. Particolare attenzione fu posta all’organizzazione degli studi; così il seminario si trasformò in un centro di formazione per tanti giovani, in seguito ceto dirigente nel Cilento, i quali, altrimenti, non avrebbero mai potuto frequentare le scuole medie ed il ginnasio. Mons. Savarese rilanciò l’opera vocazioni ecclesiastiche, alla quale diede uno statuto in sostituzione di quello approntato da mons. De Giuli. Egli moltiplicò gli sforzi per dare un’efficiente organizzazione finanziaria al seminario, consapevole che le rette corrispondevano ad un terzo dei costi di gestione. Le sue insistenze si legavano alla preoccupazione per la continua flessione del numero dei sacerdoti. Dal 1947 al 1949 erano morti 15 sacerdoti, 9 parrocchie erano state affidate a religiosi, 13 a preti non diocesani e 25 risultavano vacanti. Il maggiore numero dei componenti del presbiterio aveva superato i sessanta anni e 47 delle 104 parrocchie erano o vacanti o affidate a sacerdoti non formati in diocesi. Il dato preoccupava molto il vescovo perché induceva a ritenere che il clero non fosse “l’ideale per la compagine, la disciplina e l’unità di intenti e di marcia e d’una diocesi”. Mons. Savarese morì il 3 ottobre 1955. A succedergli fu chiamato mons. Biagio D’Agostino, assistente nazionale di azione cattolica e vescovo di Cinzio dal 12 dicembre 1951, trasferito a Gallipoli il 20 maggio 1954. Nominato il 24 febbraio 1956, egli entrò in diocesi il 24 giugno. Durante il suo episcopato il seminario ha una vita molto regolare sotto la direzione di mons. De Leo, prima, e successivamente di mons. Giovanni D’Angiolillo. Anche sulla vita del seminario diocesano si ripercuotono le conseguenze dell’esperienza conciliare, che in diocesi ha avuto un riflesso sostanzialmente molto limitato. Se ne ha sentore leggendo la raccolta d’interventi conciliari di mons. D’Agostino e le annotazioni pubblicate sul “Bollettino”. Sembra che il Vaticano II abbia colto di sorpresa la chiesa cilentana, arroccata su posizioni tradizionali. Le crisi, il dissenso, le remore, le incertezze, le contestazioni, i rimpianti e le recriminazioni, sperimentate in tante altre diocesi, lentamente trovarono riscontro anche in questa chiesa locale, dove nel presbiterio risultò prevalere un atteggiamento di attesa, a volte di confusione per l’evidente rigetto nei più anziani delle sollecitazioni conciliari, e di partecipazione più emotiva per la tendenza delle generazioni più giovani ad identificarsi con le nuove istanze. Soltanto pochi ne percepirono l’effettiva portata e costoro trovarono un meditato riscontro negli interventi del canonico teologo. Le difficoltà denunciate derivavano anche dalla diversa mentalità tra i sacerdoti del presbiterio diocesano. Alcuni, per formazione e per esperienza legati nostalgicamente ad un’articolazione sociologica del cristianesimo, si contentavano del primato della sacramentalizzazione sull’evangelizzazione, demandata alla responsabilità della famiglia ed alla tradizione comunitaria. Altri, ponendosi il problema delle conseguenze dei mutamenti sociali in atto, dei guasti e dell’evoluzione apportati, denunciavano la carente predisposizione alla catechesi ed il rischio di giudicare uomini e situazioni in una prospettiva clericale poco disponibile ad una maturazione comunitaria per non mettere in discussione certezze acquisite. Senza una profonda autocritica sarebbe risultato inutile istituzionalizzare i ministeri non accompagnati da un’autentica esperienza di fede nella comunità. Durante l’episcopato di mons. Casale il dibattito si animò proprio su questi temi. Alcuni sacerdoti, stretti collaboratori di mons. D’Agostino, manifestarono la sensazione di emarginazione per il nuovo stile del vescovo e la priorità da lui impressa all’azione pastorale. La partecipazione alla discussione denotava i primi mutamenti nei rapporti tra presbiterio e vescovo, dato senz’altro positivo, dopo la diffidenza determinata dall’intransigenza di mons. Savarese e l’acquiescenza causata da una gestione formalmente corretta, ma poco partecipata durante l’episcopato di mons. D’Agostino. Era un comportamento nuovo, che avrebbe potuto aiutare a costruire una vera comunità presbiterale. L’insuccesso dei tentativi di animazione catechetica messi in atto durante questo periodo nelle parrocchie della diocesi ebbe gravi conseguenza anche sulla pastorale vocazionale. Una prima evidente indicazione fu la progressiva diminuzione degli alunni del seminario diocesano, nonostante la disciplina e la proposta didattica fossero molto migliorate dalla fine della seconda guerra mondiale, quando a sostituire don Fulvio Parente, delegato vescovile di mons. Savarese, fu nominato rettore don Rocco De Leo. I seminaristi di liceo e di teologia frequentavano il regionale di Salerno, che aveva iniziato la sua attività di formazione dei chierici della regione ecclesiastica salernitano-lucana agli inizi degli anni Trenta del secolo. Le strutture esteriori finalmente si adeguavano al modello di sacerdote romano e tridentino sostenuto dal Vaticano, come dimostrava la cronaca pubblicata in tutti i numeri del bollettino diocesano dal 1945 al 1974. Tuttavia, una gravissima crisi colpì le vocazioni nella diocesi, vanificando gli sforzi dei vescovi. Col passare degli anni il numero degli alunni si ridusse al punto da minacciare la chiusura dell’istituto. Del resto, l’affollamento nel seminario minore, culminato all’inizio degli anni Sessanta, quando furono costituite anche due sezioni per classi delle medie, si legava alla maggiore richiesta d’istruzione da parte della gioventù, alla quale lo Stato rispondeva con estenuante lentezza nell’aprire scuole medie nei comuni. Mutata la politica scolastica, benché avesse conquistato la stima dell’opinione pubblica per la serietà degli studi medi e ginnasiali, il seminario s’andò spopolando. La vera causa del problema incominciava ad apparire in tutta la sua drammaticità, evidenziando il radicale mutamento dei rapporti clero-società civile man mano che si sperimentavano le dinamiche dell’industrializzazione e si ridimensionavano gli elementi tradizionali nella vita di ogni giorno legati alla scarsa mobilità, al senso di gerarchia e alla radicata sacralizzazione. Il declino nel numero delle ordinazioni divenne anche un segno evidente della scarsa attrattiva del modello sacerdotale proposto, sempre più un’imposizione non rispondente all’enfasi che, pur nella critica a volte preconcetta, era riposta su valori che il celibe prete borromeano a stento riusciva a capire e senz’altro non poteva interpretare. La situazione in diocesi, dal 1860 afflitta da una pericolosa flessione del numero dei sacerdoti, raggiunse proporzioni preoccupanti, anche per l’elevarsi dell’età media del clero. Il presbiterio appariva sempre meno adeguato allo svolgimento d’impegni pastorali più complessi e coinvolgenti. La crisi si legava anche ai mutamenti nella comunità locale, amalgamata in passato da un’identità di appartenenza fisica, culturale, psicologica, morale e cultuale, elementi che avevano contribuito ad elaborare valori sempre meno condivisi. L’idem sentire, che aveva rinsaldato i paesi, soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà, conferendo al parroco uno specifico ruolo di custode e di difensore, tendeva a scomparire per esaltare azioni collettive pronte a celebrare i riti del consumismo, sollecitato in modo accattivante dal vincente processo di globalizzazione. In tal modo furono demoliti codici culturali con la stessa insistenza con cui si dissolvevano le caratteristiche ambientali dei paesi della diocesi: valori collettivi che, in precedenza, s’erano identificati con la cilentanità in un territorio segnato da un lungo isolamento geografico, quando la popolazione aveva saputo confrontarsi, definendo un sistema di regole comuni ed una condivisa pratica di vita, alle quali la chiesa aveva dato il proprio suggello. Di questa crisi, accentuata da cambiamenti radicali nella condizione femminile, nel modo di esercitare l’autorità, nel modello familiare, i sacerdoti ed i chierici della diocesi erano pienamente partecipi, subendone molto spesso le conseguenze più gravi. La smitizzazione di un mondo, in precedenza sublimato dalla memoria e fecondato dal patrimonio culturale di usi, costumi, oggetti, racconti, suoni, canti, segni, rappresentava una sorta di tabula rasa rispetto agli anni di formazione in seminario, al codice di comportamento esaltato, ai tanti sacrifici richiesti in nome di una visione del mondo che pareva crollare. La reazione dei sacerdoti della diocesi a questi problemi non fu uniforme. Alcuni, consapevoli delle scelte, continuarono a dare la loro testimonianza, pur tra tante contraddizioni e sconfitte dolore; altri vivevano la loro esperienza eseguendo, senza porsi interrogativi, quanto si richiedeva dai superiori. Nel marzo del 1989, a mons. Casale succede mons. Giuseppe Rocco Favale, il quale, già nel primo saluto alla diocesi, traccia le linee di fonda del suo impegno episcopale. Il novello presule, presa coscienza della situazione, imprime nuovo stile all’azione episcopale. Tra le prime preoccupazioni, il restauro dell’episcopio e del seminario. Intanto egli procede alla chiusura del seminario teologico di Massa, inviando per il prosieguo degli studi i seminaristi alla diocesi a Napoli. Per un rilancio della pastorale vocazionale nomina dei giovani sacerdoti, i quali gli sollecitano la ripresa dell’esperienza del seminario minosre. Mons. Favale decide così di riaprirlo e dall’anno scolastico 2005-6 il terzo piano dell’edificio costruito a questo fine da mons. Cammarota ha ripreso a funzionare ospitando dei ragazzi che frequentano le scuole medie e superiori di Vallo e fanno esperienza di vita comunitaria per meglio riflettere sulla loro vocazione.
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