Le donne al tempo della guerra dimostrarono coraggio e valore.
Oltre 4.500 di loro furono arrestate, torturate, condannate: 623 fucilate, impiccate o cadute in combattimento, oltre tremila deportate in Germania. Volevano un mondo migliore, cercavano semplicemente un’esistenza più dignitosa, un Paese libero dall’autoritarismo fascista, spazi di libertà, la possibilità di uscire dagli schemi precostituiti di un regime che le aveva relegate solo nella sfera familiare e domestica. Combatterono in montagna, cospirarono, fiancheggiarono, fornirono supporto ai ribelli, tennero con coraggio in piedi famiglie divise, segnate da violenze e lutti.
Ma alla fine solo poche ebbero medaglie d’oro o d’argento al valore militare. Le donne vennero escluse dalle sfilate partigiane nelle città liberate.
Il riconoscimento dovuto arrivò solo un trentennio dopo. Nel 1965, in occasione del ventesimo anniversario della Liberazione, usciva il documentario Le donne nella Resistenza della regista carpigiana Liliana Cavani che, per la prima volta, dava voce alla presenza femminile nella Resistenza italiana. Arrivarono quindi le testimonianze, storie di donne che avevano abbracciato la lotta antifascista e partigiana.
Germana Boldrini, una ragazza di diciassette anni, lanciò il segnale la sera del 7 novembre 1944 che segnò l’inizio della battaglia di Porta Lame a Bologna tra partigiani e i nazifascisti.
Norma Barbolini prese il comando della prima divisione partigiana “Ciro Menotti” nel 1944, dopo il ferimento del fratello Giuseppe a Cerrè Sologno nel Reggiano, durante uno scontro coi nazifascisti.
Iris Versari entrò nel gennaio del 1944 nella banda partigiana di “Silvio” Corbari. Ferita gravemente a una gamba e accerchiata in una casa colonica insieme ad altri partigiani, il 17 agosto del 1944 preferì uccidersi anziché essere catturata dai nemici.
Angela Lazzarini, prima di morire fucilata ai piedi del campanile di Certaldo, un piccolo abitato nel territorio di Macerata-Feltria il 18 giugno del 1944, rivelò che la sera prima era stata violentata da diversi militari tra cui il sottotenente che avrebbe comandato il plotone incaricato di giustiziarla.
Anna Cherchi era una giovane staffetta che guidava i partigiani tra i boschi piemontesi, in mezzo alla neve che celava strade e sentieri. Il 19 marzo 1944 venne avvistata da una colonna di militari tedeschi. Il comandante partigiano le ordinò di procedere verso i nemici, dando ai suoi il tempo necessario a mettersi in salvo. I tedeschi la portarono prima ad Alba, poi a Torino. Alle carceri “Nuove” fu torturata ogni giorno per un mese, ma nemmeno le scariche elettriche riuscirono a farla parlare. Poi su di un carro bestiame fu deportata a Ravensbruck, campo di concentramento per sole donne: «Un macellaio le strappò, in due diverse “sedute”, 15 denti. Anna aveva 18 anni ed era una staffetta».
Le madri della montagna continuarono a lavorare, tagliare, cucire, preparare indumenti, confezionare pacchi viveri portati dalle staffette in montagna ai partigiani, avvisavano dei rastrellamenti consentendo ai loro uomini di mettersi in salvo. E in molti casi versarono lacrime per i figli veduti cadere sotto i propri occhi.
Maria Giraudo vide ammazzati due dei suoi tre figli, Anna Maria Enriques Agnoletti vide la propria figlia in carcere «andare verso il suo ultimo destino», la fucilazione, Genoveffa Cocconi, la resdòra della famiglia Cervi morì il 14 novembre del 1944 per le conseguenze di un infarto avuto a seguito della perdita dei suoi sette figli, fucilati al poligono di tiro di Reggio Emilia il 28 dicembre del 1943.