A Felitto il silenzio è un manto adagiato sulle pietre e sulle panchine, è uno di quei veli poggiati sui cadaveri; ora, però, non c’è nessuno a scostarlo e a mostrarci la fronte del morto.
Ogni tanto, il morto ci mostra le sue antiche sembianze, e prendiamo a ricordarlo per com’era quando ci sorrideva da vivo, come quando sogniamo chi non c’è più e ci sembra di non averlo mai lasciato veramente.
Sembra ieri che potevamo sederci su quelle stesse panchine che oggi sono morte, fumarci una sigaretta e, perché no, gettarle anche a terra e calpestarle con un movimento secco e deciso del tallone: delle regole non ci interessava nulla, ed eravamo ricchi perché potevamo godere di un lusso che adesso ci sembra il massimo piacere del mondo.
Quel lusso si chiamava “perdita di tempo”.
Sembra un controsenso? Certamente, perché ora, di tempo, siamo pieni.
Prima il tempo lo si perdeva, adesso lo si riempie. Ci siamo improvvisati pizzaioli, abbiamo provato a impastare nelle nostre case, abbiamo trasformato i nostri tavoli domestici in scannaturi per fare i cavatielli e i fusilli, abbiamo ripreso a giocare con i nostri figli tra una catena di WhatsApp e le notifiche di una chat di gruppo chilometrica, abbiamo affondato le mani nella farina e nelle uova per farne torte e dolci di tutti i tipi. Sì, anche voi che state leggendo e che magari non vi riesce nemmeno la cottura di una frittata!
Annaspiamo in preda a una febbre convulsa che ci porta a trovare i modi più disparati per riempirlo, questo tempo. La febbre del riempire è totalizzante, come se riempendo il nostro tempo potessimo illuderci di riempire anche la nostra fame, che non è quella di fusilli, cavatielli, panzerotti e zeppole; è, in realtà, una fame più profonda che forse ci portavamo dietro molto prima dell’inizio della quarantena.
La fame di riappropriarci della dimensione giusta del nostro tempo, senza doverlo né perdere né riempire a tutti i costi. Quando questa quarantena finirà, non sentiremo più il bisogno di riempire il tempo in maniera ossessiva ma ci guarderemo anche bene dal perderlo.
Ne apprezzeremo lo scorrere, in tutta la sua tragicità e banalità, e ne apprezzeremo la progressione: impareremo di nuovo, come fanno i bambini che si accingono a mettere un piede davanti all’altro per la prima volta, il ritmo della progressione del tempo.
Impareremo di nuovo a disporre i piedi in ordine, impareremo che cosa significa sentire il suono del mezzodì in piazza davanti al Municipio, e ogni rintocco dell’orologio tornerà di nuovo ad avere un significato ben preciso.
Faremo pace con il tempo, che sarà pronto a scorrere, ineluttabile e indifferente, come l’acqua che bagna Remolino.
Perché è così che va, è così che deve andare: le stagioni non si fermeranno, e ogni fioritura, ogni ramo, ogni sasso del fiume e ogni filo d’erba tornerà a ricoprire il ruolo che l’universo gli aveva assegnato.
Cos’altro ci porteremo dietro? La solidarietà, parola di cui ormai ci si riempie la bocca fin troppo spesso e senza indagarne il significato primigenio. La solidarietà, non quella a buon mercato per potersene vantare con gli altri e fare a gara a chi ha il cuore d’oro più grande, ma quella sussurrata, pronunciata a voce bassa e smorzata per non farla percepire al mondo. La solidarietà verso chi, con il lockdown totale, arranca ad arrivare a fine mese, verso chi proprio non ce la fa a prendere due pacchi di pasta di buona marca e si getta su quelli che costano pochi centesimi, la solidarietà verso coloro che non riescono ad ammettere che questa crisi da coronavirus ha fatto proprio male.
Per la prima volta in paese siamo tutti uguali: le maschere sono cadute, ci guardiamo come se fossimo nudi. I nostri corpi sono esposti, e anche se non possiamo vederci sul serio, quando ci affacciamo al balcone per scutulare il mesale o per fumare una sigaretta o prendere aria, riusciamo a sentire l’odore l’uno dell’altra, come le bestie nel bosco. Odoriamo di paura, di fragilità e di impotenza. E forse, quest’odore ci rimarrà appiccicato addosso per molto altro tempo ancora, come quelle orribili acque di colonia che solo le vecchie signore si spalmano addosso. Ma quell’odore sarà ancora l’unica cosa che ci unirà, che ci ricorderà che per qualche mese siamo stati davvero uguali, davvero nudi, davvero fratelli.
Ci porteremo dietro anche la prudenza, la fiducia nella scienza e quella verso l’informazione. Prima i giornali non venivano quasi mai consultati da nessuno, ora vi è una gara per controllare dati, bollettini e controbollettini; prima la scienza era calpestata sotto i tacchi e la ragione svilita, i no-vax proliferavano nel paese e si lanciavano in sperticati commenti al limite della fantascienza. Ora la scienza è tornata ad avere un’autorevolezza nell’immaginario collettivo, e passerà molta acqua sotto la palata di Remolino prima che qualcuno torni a contestarla scioccamente.
Cos’altro ci lascerà questo periodo? Smetteremo di voler essere belli e piacenti a tutti i costi. Smetteremo di voler dare la migliore versione di noi durante l’ennesima passeggiata in piazza, ci cureremo meno degli altri e il loro parere non ci sembrerà più così interessante. Dopo mesi barricati in casa con pigiami, tute e assenza di trucco e belletto, anche la corporalità e la fisicità verranno vissuta con più serenità.
Forse smetteremo anche di lamentarci. Vi sembra utopico? Va bene, allora forse continueremo a farlo, ma di meno.
Sicuramente non ci prenderemo più gioco degli altri tacciandoli di allarmismo, avremo più a cuore la nostra salute e la smetteremo di rimandare quella visita, quella radiografia e quella passeggiata all’ospedale, e capiremo davvero che finché noi e i nostri cari stiamo bene, allora siamo davvero ricchi. Allora c’è davvero tutto.
Diremo più spesso a chi vogliamo bene, quanto lo amiamo. Perché domani potrebbe essere troppo tardi.
E poi gli prepareremo i cavatielli. Perché così ci piacerà e così vorremo, e non per riempire un vuoto.
Monica Acito