Di mattina Franco si sveglia ancora all’alba. Sa che “il mattino ha l’oro in bocca”. L’oro del sole che giunge, come sempre, ad inaugurare un nuovo giorno, ed è importante che anche questo giorno sia produttivo, che la terra non senta la mancanza della mano dell’uomo, della sua cura, della sua presenza pianificatrice.
Giuseppe non smette di piantare il suo orto. Il vivaista lo ha pregato di acquistare qualche piantina in più, per regalare a lui, così facendo, qualche seme di speranza. La speranza di non dover ridurre ulteriormente il personale, di non dover, alla fine, rassegnarsi a chiudere i battenti.
Tutte le volte che lo incontro, Giovanni, invece, mi ricorda la fortuna che ho a vivere in campagna. Lui ci trascorre la maggior parte del suo tempo, ritornando a casa, in paese, soltanto per un pranzo veloce, per poi recarvisi nuovamente e lì dedicarsi alle piccole attività che tanto lo aiutano a rendere il suo tempo significativo, da neo-pensionato.
La terra non smette di produrre i suoi frutti e abbandonarla oggi, in un tempo in cui quasi ogni cosa sopravvive, sospesa, in attesa di ritornare a fiorire, equivale a perdere molto di più di un raccolto.
I contadini sono, insieme ad altri “meno fortunati”, tra coloro che hanno potuto conservare un pezzo di normalità nell’immobile quadro delle restrizioni e delle misure preventive anti coronavirus.
L’arcaicità della loro professione, la sua intrinseca utilità, li rende essenziali a questa battaglia in perseveranza che dura ormai da più di un mese.
Sono radicati i contadini, come ciò di cui si prendono cura, nei bisogni fondamentali di una società, combattenti armati di vanga e pazienza, disposti a faticare e ad attendere, con fiducia.
Figure che sembrano perciò quanto mai adatte ad affrontare un’emergenza in cui la capacità di agire per sedersi poi ad aspettare, e godersi infine la meraviglia di un campo germogliato, così come quella che segue la constatazione di un paziente guarito, risulta essere una chiave preziosa di r-esistenza.
Non si contano, nel Cilento interno, grandi aziende agricole. I coltivi sono, per lo più, a misura di umanità. Il rispetto per i cicli naturali fa prediligere metodi di coltivazione tradizionali che non necessitano di un marchio per definirsi biologici, partecipando del reddito agricolo nazionale per una piccola percentuale. Ma non è un caso che la Campania risulti essere tra le regioni d’Italia che maggiormente vi contribuisce: Plinio il Vecchio parlò di “Campania felix” anche per sottolineare la fertilità della regione, e non è improbabile la derivazione etimologica del termine “campagna”, che ancora oggi designa il terreno coltivato, dal suo toponimo che sappiamo provenire però dal nome della città di Capua. Fu poi “Terra di lavoro olim Campania Felix” e tale è ancora, perché il lavoro speso dagli agricoltori è qui costante, e sa farsi sinonimo di una dignità del fare per gli altri che appartiene a noi servi del Sud da tempo immemore.
Non si offenda nessuno, la parola “servo” qui, come abilmente ci insegna il salernitano Gerardo Magliacano nel suo romanzo “Servi della gleba” ([erre]EDIZIONI, Napoli, 2018), si oppone nettamente alla parola “schiavo”.
«Schiavo è un sostantivo, servo un verbo; nel primo caso è una condizione cui si è ridotti, nell’altro è l’agire che lo determina. La schiavitù la si subisce, la servitù è un donarsi».
Ed è per questo che alla tavola rotonda presso cui tutti oggi sediamo, ugualmente afflitti dalla cecità di un senza fine, i contadini sono cavalieri serventi di una pazienza sapiente che può essere d’esempio per l’intera comunità.
Servire è sempre servire qualcosa o qualcuno. O meglio servire a qualcosa o a qualcuno, a un’idea, a un principio, a una zolla di terra.
Francesca Schiavo Rappo