La Storia, quella di S maiuscola e di morantiana memoria, non rimane circoscritta alle grandi città e alle grandi realtà, ma dal lontano Nord penetra nelle pietre dei piccoli centri storici, nei borghi dimenticati da Dio e nella piccola narrazione personale di ognuno di noi.
Qualche mese fa, qui nell’entroterra cilentano, non avremmo mai pensato di familiarizzare con nuovi termini come pandemia, epidemia, focolaio, parole che sembrano far parte di un lessico da tg e ora sono le compagne di ogni nostra giornata.
Queste parole scandiscono l’ossessiva ricerca di nuove informazioni, perché siamo tutti soli, tutti di fronte all’ineluttabile paura di ammalarci e di perdere i nostri cari.
Ogni piccolo borgo ha le sue regole e i rituali, così diversi per ogni paese, e così semplicisticamente uguali e immutabili nel tempo.
Come una grande tribù, il borgo ha la sua prassi: vi è la negazione iniziale, che sa di display di televisori in soggiorno, pieni di fredde cifre che raccontano una realtà lontana, impalpabile, distante centinaia di chilometri dalla piazza dove siamo abituati a vivere, passeggiare e spesso morire.
Dopo la negazione, vi sono le prime avvisaglie, come piccoli colpetti sul guscio duro di un uovo: sono i contraccolpi, dapprima lievi e poi più insistenti, della realtà, che ha il bisogno di farsi ascoltare.
Ed ecco i primi paesani, da fine febbraio in poi, che cominciano a scendere dal Nord.
La discesa dei propri compaesani che abitano “a’via re’copp” è il primo, drammatico impatto con la realtà di quei televisori che prendono polvere in soggiorno: il virus è davvero arrivato, la prudenza sembra essersi dissolta tra i binari dei treni e i voli prenotati in fretta e in furia.
Il piccolo borgo ha paura, le ordinanze iniziano a fioccare, tra quei televisori, gli schermi dei cellulari e i passaparola delle persone: allora era tutto vero? Il coronavirus non era un’invenzione? I primi complottisti, frutto dell’ignoranza che serpeggia in qualsiasi posto, non esitano a far sentire la loro voce. Sono da compatire, guardare quasi con tenerezza, come cuccioli indifesi che cercano di erigere uno scudo che li protegga dalla disperazione del reale, prima che le cose si mettano male, prima che faccia buio, prima che sia troppo tardi.
Come il rantolo dell’ubriacone di piazza, che ha perso il suo scettro paesano e si aggira, con un velo di malinconia negli occhi, nella piazza vuota.
Come un Pierrot dalla lacrima cucita sul volto.
Tutti i ruoli del paese, finora vigenti e rigidamente schematizzati in mesi, anni e secoli, iniziano a venir meno, a polverizzarsi e a trovare il nulla.
La quarantena è arrivata per tutti, anche per chi non ci credeva e minimizzava, dicendo che il coronavirus era una banale influenza che colpiva solo i vecchi, guardando con disprezzo chi cercava di svegliare le coscienze ed evocare un po’ di senso civico.
Iniziano a formarsi i primi gruppi Facebook, per rendere la popolazione più coesa e arginare le fake news e l’allarmismo di alcune testate, i primi #andràtuttobene dei bambini del posto, alcune signore scoprono un improvviso amore per il fitness e si incamminano per i dirupi, le strade sterrate e i sentieri, all’avventura e per respirare un po’ di aria fresca. No, non si può, l’ha detto De Luca.
Non si può scambiare il proprio paese per una palestra a cielo aperto: camminate tra il vostro salotto e il bagno, ma restate a casa.
Il popolo risponde bene e meno bene.
C’è chi rispetta scrupolosamente le regole, chi in casa “esce pazzo”, chi vorrebbe uscire per lasciarsi alle spalle chissà quali fantasmi che affollano i loro luoghi chiusi, ma una comunità non può pagare per tutti.
Andrà tutto bene? Il paese, dopo questa quarantena, non sarà più lo stesso. Inutile negarlo.
Ma per adesso possiamo farci compagnia, cantare insieme sui balconi, prenderci un po’ in giro, sdrammatizzare con quel sorriso sornione che guarda la vita di sbieco, incarnato del dna cilentano, tessuto tra le mille malinconie e un “addà passà a nuttat” sussurrato guardando fuori al balcone.
La via è deserta, la Sagra del Fusillo è un ricordo lontano, le Gole del Calore continuano a scorrere, placidamente.
Loro non sanno nulla, a loro cosa importa? Le trote respirano un po’ di più, i nostri piedi non si pungono più con le pietruzze e le canoe galleggiano come conchiglie abbandonate sulla battigia.
Il virus uccide solo i vecchi, dicevano. No, non è così: tra neocatecumenali e paesi messi in quarantena, pericolosamente vicini a noi, queste parole risuonano un po’ come una spada di Damocle che ci pende sul capo, pronta a trafiggerci in tutta la sua assurdità.
Per un attimo, prendiamoci cura di quegli anziani che spesso per noi sono una zavorra.
Ci sembra ancora di vederli, i nostri anziani: baluardi della piazza e re delle panchine. L’altro giorno, quando il paese non era ancora blindato, si parlava un po’ di questo virus e ho detto loro di andare a casa. “Eh, ma io in casa nge’ moro!” e mi sono sembrati così infantili, così sinceri, vecchi bambini annoiati a cui viene tolto il loro giocattolo preferito, la piazza. Il loro trastullo principale è la piazza con il suo viavai di gente che torna da lavoro, donne affannate con le buste della spesa, bambini scalmanati che scappano sotto le macchine e altri piccoli insetti di questo formichiere che è il paese. Ho guardato gli occhi dei vecchietti e ho visto delle orbite scavate dalla noia, ci ho visto rabbia da bambini con le braccia conserte, mandati verso un castigo che non hanno ancora capito. A loro non era stato tolto solo il gioco, ma avevano proprio l’aria di chi sperimenta un lutto che cancella anche l’idea stessa del giocattolo. Ora quelle panchine sono vuote, e voi, vecchietti, siete nelle vostre case, magari da soli a fissare la rupe del Calore dietro una finestra che non regge, o davanti al quiz televisivo di un presentatore che parla da solo senza pubblico in studio. Se potessi vi ospiterei nella mia stanza, voi mi insegnereste a giocare a carte (sono incapace anche solo di giocare a scopa) oppure fingerei di vedere nei vostri occhi liquidi quelli di entrambi i miei nonni che non mi sono mai goduta, o forse magari rideremmo dietro a qualche “conto” paesano o a qualche bestemmia rivolta a “Santo Niente”.
Vorrei solo che sapeste che, al di là di tutto, andrà tutto bene, e che presto, molto presto, potrete tornare a giocare.
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