Chi è stato in mare aperto in piena notte conosce bene il senso del sublime. Quel vorticare di stelle sulla testa e lo sciabordare delle onde contro i legni è tanto affascinante quanto misterioso, tanto terrificante quanto magico.
Nella tradizione marinara cilentana, quella dei nostri ultimi pescatori, quasi figure leggendarie ormai, sempre più somiglianti nell’immaginario comune, a moderni Tritoni dalla pelle arsa e i capelli schiariti dal sole cocente, c’è un’eccellenza gastronomica riconosciuta presidio Slow Food che tocca profondità millenarie e già viaggia per il mondo con le mareggiate del gusto: le Alici di Menaica, prodotto tipico di Marina di Pisciotta, minuscola frazione del comune da cui prende il nome.
Scrive Giuseppe Ungaretti nella sezione “Mezzogiorno” della sua raccolta “Il Deserto e dopo”, sfiorando Palinuro e la costa campana tirrenica sulle tracce di Virgilio nel 1932: “Si volge in tre fasce su una parete: la più alta è il vecchio paese, di case gravi e brune e grandi arcate; in mezzo sono ulivi sparsi come pecore a frotte.” E in basso, sul versante costiero del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, a metà strada tra i litorali di Velia e Palinuro, tra i torrenti Fiore e San Macario, sorge questa piccola gemma marina, fatta di viuzze strette e spiaggette residue, di agata e conchiglie, d’un porticciolo che ricorda attracchi di navi greche e ne mima la storia, sempre la stessa, di borghi nati dalle fughe verso un altrove sicuro a causa delle incursioni Saracene.
Fu allora, ed è ancora, un porto salvo quello di Marina di Pisciotta, che onora ogni anno proprio la Madonna protettrice dei pescatori, il cui mestiere ricco di insidie e pieno di partenze senza certi ritorni, non manca di ricordare a tutti i suoi abitanti la grandiosità e la potenza del mare.
Le Alici di Menaica rappresentano a pieno titolo un fattore di biodiversità e possono essere definite una prelibatezza della tradizione peschereccia nostrana, tanto legata ai ferri del mestiere da derivarne la loro classificazione: Menaica, menaide o, anticamente, minaica, è, difatti, il nome che i pescatori danno alle reti a maglie larghe utilizzate per la pesca della specie protagonista di questa tipicità, strumenti tanto clementi e giusti da trattenere soltanto i pesci più grossi, lasciando invece andare via gli esemplari più giovani e garantendo in tal modo il preservarsi dei nuovi banchi adulti a venire.
Si tratta di una tecnica antichissima, un tempo diffusa in molti paesi del Mediterraneo ma che oggi sopravvive in pochi luoghi d’Italia. Approfitta delle giornate di mare calmo, quando, tra aprile e luglio, il litorale comincia progressivamente a mutare di volto e i tramonti sono scenari dipinti a tinte pastello. I pescatori escono all’imbrunire. A quell’ora Marina di Pisciotta non assomiglia a nessun altro luogo del mondo e, nel contempo, ne è il centro ed il cuore pulsante per chi vi abita e opera da decenni, tramandando di generazione in generazione saperi e abilità legate alla lavorazione del pescato. Tutto è fermo. Custodi dei segreti della conservazione, le donne, a casa, dall’altro lato del porto, attendono il rientro dei marinai, riposando le mani prima di mettersi a lavoro, ed anche le reti, stese a sbarrare il percorso delle barche al largo, si addormentano sul fondo, restando in attesa.
Nervose e guizzanti, le alici, occupano lo spazio della loro prigione nell’oscurità della notte e una volta intrappolate, vengono tirate in barca a bracciate e delicatamente estratte, una ad una, dalle maglie, staccandone la testa ed eliminandone le interiora in un processo che ne favorisce un rapido dissanguamento. Il passaggio successivo consiste quindi nel sistemarle in cassette di legno, per il trasporto verso la terra ferma, senza però immergerle né in ghiaccio né in altri tipi di refrigerante. La garanzia della loro qualità sta nell’immediata lavorazione. Che sia l’alba o mezzogiorno, i pesci così trattati vengono subito lavati in salamoia. Si dispongono poi in vasetti di terracotta, alternati a strati di sale. Quindi inizia la stagionatura, che avviene nei cosiddetti magazzeni, locali freschi e umidi dove un tempo, prima che nascesse il porto, si ricoveravano anche le barche. Qui le alici devono maturare, ma senza asciugare troppo, almeno tre mesi, tempo dopo il quale saranno pronte per essere gustate, crude o cotte. Da vent’anni e più l’azienda di Donatella Marino, unico laboratorio riconosciuto, fa scuola nel settore della trasformazione e vendita dei prodotti da menaica, rappresentando un perfetto esempio di economia virtuosa, capace di autosostenersi, sostenere un’attività altrimenti faticosa e nel contempo, raggiungere vasti mercati per la sua prerogativa e peculiarità.