Questo itinerario è dedicato ad un insolito personaggio che, avendo oggi superato abbondantemente gli …anta, ha vivacizzato non poco la vita del Vallo restituendo, ai posteri, le sensazioni di un viaggiatore che per nulla al mondo ha voluto rinunciare al piacere di assaporare la brezza del vento mentre era in cammino. Di lui non ricordiamo bene il nome, potremmo chiamarlo “convenzionalmente” ‘Zi Giovanni, o ‘Zi Luigi, oppure ‘Zi Minicuccio; ma certamente sappiamo che ha vissuto, o vive a tutt’oggi, tra Monte San Giacomo e Sassano. Questi, gestiva un emporio nel Vallo ove poteva trovarsi un po’ di tutto e, per lunghi anni, almeno un paio di volte al mese, quando il cielo era ancora brillo di stelle ed il buio cominciava a lasciare il passo all’aurora, inforcava la sua bicicletta nera coi freni “a bacchetta” ed iniziava un lungo viaggio che attraversava tutto il Vallo, superava le Gole di Campestrino, il Valico dello Scorzo, il ponte sul fiume Sele e la piana, fino a giungere a Salerno per fare carico e provviste di tutto il materiale necessario per la sua bottega. Una semplice merenda, e nel pomeriggio compiva lo stesso itinerario a ritroso fino a giungere, verso il tramonto, nuovamente nel Vallo. La sua filosofia di vita era: camminare, pedalare e… respirare, e non sopportava tutto ciò che era meccanico e si “muoveva” automaticamente (auto, pullman o treno).
I collegamenti con i territori più interni, e difficilmente raggiungibili, del mezzogiorno italiano, sono stati sempre uno dei maggiori problemi che si è cercati di risolvere fin dall’epoca dei primi coloni ellenici. Nella zona tra i complessi montuosi degli Alburni e quelli del Sirino (in Lucania), al di là delle Nares Lucanae (Narici della Lucania, lo storico Valico dello Scorzo) si estende quell’infinito altopiano che è il Vallo del Diano. I Greci mostrarono scarso interesse per le sistemazioni viarie e i collegamenti interni; essi si limitarono a percorrere brevi tratti di cammino (le cosiddette Vie istmiche) tra i porti costieri della Magna Grecia e qualche sparso insediamento verso l’interno, spesso minacciato da continue incursioni di popolazioni interne tra cui Lucani, Sanniti, Osci e Italici. I Romani, invece, con la loro mania di conquista, furono tra i più astuti ad accorgersi di non lasciar tagliati fuori questi importanti territori interni che, come dimostrato successivamente, sarebbero stati di fondamentale interesse per le conquiste e l’estensione dell’Impero. Dopo aver realizzato la più famosa delle strade, la Via Appia, pensarono bene di far distaccare da questa (presso Capua) un’arteria (la Popilia-Regio/Capuam) che collegasse i territori interni della bassa Campania, della Lucania e del Brutium (Calabria) fino a Reggio, sulle sponde dello Stretto. Ebbene, con alterne vicende storiche l’intuizione si rivelò azzeccata. Scorrendo lungo il corso dei secoli, la strada più volte fu ripresa e risistemata fino all’ottocentesca sistemazione definitiva voluta dai Borboni e, per l’occasione, fu chiamata “Via Regia delle Calabrie” (praticamene l’attuale tracciato Strada Statale n.19).
Ma con l’avvento dell’epoca dei “lumi” e delle prime tecnologie industriali furono inventate nuove macchine che avevano la possibilità di muoversi autonomamente e, tra queste, la locomotiva, un carro a vapore in acciaio che si muoveva scorrendo lungo due traversine parallele in ferro (le rotaie). Non a caso, anche se fu un inglese a realizzare il primo esemplare di questo veicolo fu qui, nel mezzogiorno italiano, che ebbe modo di muoversi la prima serie di carri trainati da una locomotiva: il tratto ferroviario da Napoli a Portici inaugurato dai Borboni nei primi decenni del XIX secolo. La comodità di spostarsi velocemente con questo nuovo mezzo (il treno) fu subito vista con interessi positivi, e fu così che si misero in opera numerosi tratti di strada ferrata lungo tutto lo stivale italico. Ma non sempre l’orografia del territorio permetteva agevoli scavi per la sistemazione di traverse e rotaie. Ed è questo il caso del tratto ferroviario interessato dal nostro itinerario. Quando fu progettata la linea che da Napoli proseguiva verso il Sud, all’altezza dello scalo di Battipaglia si pensò bene di far distaccare un troncone che mettesse in collegamento i territori più interni nelle direzioni di Potenza-Taranto e di Lagonegro, e da quest’ultimo centro, poi, vi era un altro troncone (gestito da società private) che univa la cittadina nerulana con Castrovillari, nell’alto cosentino. Il troncone (a binario unico, oggi elettrificato) che parte da Battipaglia, a sua volta si biforcava all’altezza dello scalo di Sicignano, sotto la mole calcarea dei monti Alburni. La linea Sicignano-Lagonegro fu dismessa tra la fine dei ‘70 e l’inizio degli anni ’80 del ‘900, perché non ritenuta più utile e sufficiente a garantire il traffico su rotaie, e poi anche perché, ormai surclassato dalla veloce autostrada A3 Salerno/Reggio Calabria. Bisogna qui ora dare un plauso alla Sezione del Club Alpino Italiano di Salerno che, qualche anno fa, ebbe prima l’intuizione, e poi la felice idea, di ripristinare (idealmente) il tratto di linea che dalla stazione di Petina giungeva a Polla, nel Vallo del Diano. Ebbene, questo tratto è stato praticamente ripercorso e, per quanto possibile, ripulito di tutta quella sterpaglia spontanea, di quella vegetazione cespugliosa e di quei pungenti roveti che ne impedivano il transito anche a piedi.
Dal Casello della vecchia Stazione di PETINA (266 m) un binario arrugginito punta verso l’antro buio di una galleria (sperone calcareo di monte Forloso 1102 m), 850 metri di nero seppia ove gli echi dei passi rimbalzano da una parte all’altra in un’umidità che raggela anche i più dotati fisicamente. Al suo termine il riverbero della luce dà accesso al ponte (lungo appena 100 metri) che scavalca (271 m) il profondo Vallone di S. Onofrio sotto cui scorre l’omonimo torrente: una ricca e fitta vegetazione caratterizza la zona; in alto, a destra, si staglia il monte Figliolo (1299 m) mentre in basso, giù a sinistra, si apre il letto del Tanagro e scorre la Statale. Ed è nuovamente buio pesto, 700 metri che sembrano un’infinità tra il brulicare di insoliti rumori (pipistrelli!) e lo stillicidio di gocce che martellano, a ritmo incessante, il nostro passaggio; non dimentichiamoci che stiamo attraversando il cuore dei monti Alburni, calcare allo stato puro, così com’è evidenziato dalle diverse caverne che ogni tanto si aprono sui lati della galleria e che conducono nelle viscere della terra, buchi neri da cui ululano folate di vento. Il bianco puntino sullo sfondo dice che possiamo finalmente uscire (276 m) e guadagnare nuovamente la luce; un casello di manutenzione è posto sulla sinistra. Tra i fittissimi boschi serpeggia il nastro ferruginoso delle rotaie e sembra quasi di rivedere le nere locomotive di un tempo (alimentate a carbone) “ciuffettare” tra questo intenso verde, oppure le più veloci (e goffe) littorine (alimentate a gasolio), che con la loro fusoliera marrone sfrecciavano, di stazione in stazione, su e giù per queste montagne e queste vallate. A meno di 3 km dall’ultima galleria, ecco presentarsi il Casotto della Stazione di Auletta (312 m). E qui i ricordi tornano subito alla mente, di quando, con la spensieratezza adolescenziale di chi vive le prime avventure di escursionista a bordo di traballanti vetture ferroviarie, vi era qui l’obbligo di fermata su un binario di servizio, per consentire il transito al treno che proveniva in senso contrario. Ed era un vero spasso perché la presenza di un enorme albero di gelso che, oltre a ripararci con la sua folta frescura dalla calura estiva, stuzzicava i nostri interessi (e le nostre gole) attirando sempre la collera dell’iracondo capostazione che non perdeva occasione per sbraitare ed inveire con chiunque allungava le mani per degustare i frutti del “suo” gelso. Da qui in poi, la massicciata rasenta i profili di boscosi pendii ricchi di verde, ed ora le rotaie continuano lungo un imponente ponte (341 m) sorretto da una infinita serie di arcate in mattoni.
Il ponte forma una enorme curva che, con un raggio di 180°, piega a sinistra e attraversa il pianoro solcato dalle acque del torrente Lontrano che va ad alimentare il Tanagro. Un altro tratto di 600 metri di buia galleria, ove l’acre odore delle pareti ammuffite ed impregnate dai vapori e dai carboni penetra come una spada all’interno dei nostri polmoni, porta a condurre nella zona di Pertosa. Superati, con una svolta a destra, il 1° Ponte Monaco (357 m), si attraversa il Vallone Monaco ed il successivo 2° Ponte Monaco (373 m). Subito dopo si perviene alla Stazione di Pertosa (381 m), proprio al di sopra dell’apertura dell’anfratto ipogeo della Grotta dell’Angelo. Superati la Stazione la ferrovia sfiora prima una grossa dolina, ricca di verde che s’apre sulla destra (367 m), e poi i resti di una grossa centrale idroelettrica in disuso. I binari corrono sul ciglio di una profonda gola, girando intorno ai piedi della Costa Grande Valentino (863 m). In questo tratto, la rotaia lambisce (415 m) la sinistra orografica dell’angusto vallone delle Gole di Maltempo, ove scorrono le impetuose acque del Tanagro; sul versante opposto invece, si stagliano i dirupi del Vallone del Cangilo con il ponte che supera la gola, e i tornanti della Strada Statale che scavalcano la Forra di Campestrino (323 m). Si giunge nei pressi di una diga proprio nel punto più alto della gola. Ancora gli ultimi 500 metri di galleria ed eccoci finalmente sbucati (446 m) tra i vigneti ed i campi coltivati di Contrada Creta (437 m), naturale preludio al Vallo del Diano. Più in avanti si apre un laghetto artificiale nel quale confluiscono le acque di un canale derivato e parallelo al fiume “dianese”; si sfiora nuovamente il letto del Tanagro fino a giungere così, improvvisamente, ai ponti di POLLA che dividono il grazioso paese in due distinte parti: quella più vecchia, di matrice medioevale, a occidente, addossata ai declivi brullo calcarei della Costa Monacelle; mentre quella più nuova, di recente formazione, ad oriente, ove domina un fertile pianoro.
…Conclusioni. Oggi, da poco entrati nel 3° millennio, l’alacre velocità con cui si consumano attimi e momenti ci ha fatto perdere l’esatta “misura del tempo”. Chissà se un domani (e si speri che non sia troppo lontano…!) il ripristino di quest’arteria ferrata potrà, almeno soltanto come promozione turistica alternativa, scaturire nei bambini del 2000, nuove emozioni e nuovi sentimenti… autentiche sensazioni di quei viaggi dal sapore antico in cui si rivivono valori unici, indimenticabili e irripetibili. (Tratto dalla guida: “ALBURNI, le Montagne del Silenzio” di ©Andrea Perciato)