“Diceva il padre: – Per lasciarti il mio / non ho bisogno, o figlio, di notaio: / la zappa e il ronco. E rendo grazie a Dio / che mi salva da penna e calamaio: / lo scritto, come il rovo, mette unghioli /sugli stracci dei poveri figlioli. / La zappa, il ronco ed il bel sangue rosso,che, come il vino nuovo, t’arde in petto: /questo ti lascio; e ciò che porto addosso:brache e cappello; e questo bel trincetto,/ che taglia il nostro pane di granone, e fa da companatico al boccone…”
(Nicola Vernieri, “Il Testanento”)
Ed anche per te, maestro Nicola Vernieri, figlio di Ezechiele che della poesia ne facesti canto perenne alla civiltà contadina, canterò il mio canto… È il buon tempo antico, maestro, e la luce dell’umile fiammella popolare quella che in te si tramuta in voce poetica e guida l’opera alta di un poeta che coltivando con amore la nobile pianta della poesia, ha saputo dare ad Albanella il suo fiore più bello.
Nascesti, maestro, nel cuore del centro storico di Albanella, dove ancora esiste la tua casa e che ci auguriamo possa presto (come m’è occorso di sentire in Municipio!) una “Casa Museo”, sulla cui fronte già nell’anno 1995 l’amministrazione di allora volle a ricordo elevare una lapide che così recita: “Casa natale del poeta Nicola Vernieri – Albanella (20.4.18.1893 Roma 16.15. 1965) per chiara fama titolare della cattedra di letteratura poetica e drammatica del Conservatorio di Santa Cecilia – Roma – Operosa tenne / ed in silenzio la bella Musa / che di tanto sole arricchì Albanella – Il Municipio di Albanella a perenne ricordo pose A.D.MCMXCV…era il 20 aprile dell’anno 1893 e fosti di Ezechiele e Sofia Picilli, il sesto di quattordici figli. Trascorresti parte della tua prima infanzia presso un vecchio zio senza figli, “ricco proprietario terriero” di San Cipriano Picentino, dove ancora negli anni novanta ed io ne fui testimone, ti venne intitolata una via, Salerno, il capoluogo, aveva già provveduto qualche anno prima, il quale avrebbe voluto adottarti, ma l’indole tua ribelle e la tua voglia di libertà lo fecero desistere e ti rimandò a casa, dove ritrovando quel calore materno che tanto era mancato ti facesti docile alle attese di tuo padre e fu così, si legge in una delle tue tante biografie che: per secondare il padre commerciante, che vedeva in lui un futuro ragioniere, il ragazzo frequentò la Scuola tecnica di Salerno e poi l’istituto Tecnico Della Porta di Napoli. Dopo il primo anno dovette abbandonare gli studi per mancanza di sostegno finanziario. Cominciò da capo con lo studio del latino, dei classici e degli autori moderni italiani e stranieri grazie agli aiuti degli amici più stretti che gli fornivano i testi. Si formò così, una cultura da autodidatta, faticosa, che finì per affinare e ravvivare in lui la sensibilità artistica. Il Vernieri esordì come narratore, e le sue prime novelle furono pubblicate da Edoardo Scarfoglio sul Corriere di Napoli. Egli ripiegò su di un Concorso per l’impiego nelle Poste e telegrafi. Riuscito unico vincitore tra i candidati della provincia di Salerno fu destinato a Novara, ove condusse per imposizione materna, una sorella di dieci anni. Ed a Novara, continua ancora il nostro per Nicola Vernieri si dischiuse l’orizzonte poetico. Aveva allora diciotto anni e qui compose il suo primo poemetto in versi dal titolo “Il grillo del mio cuore” che solo qualche anno dopo, ovvero nel 1927, troverà per i tipi della Lanciano Editore la sua pubblicazione. Intanto che Novara ti teneva, maestro, scoppiava la prima guerra mondiale e tu, maestro, chiamato alle armi, partisti e tornando, ancora una volta per un concorso vinto che ti portò al Ministero delle Comunicazioni, ti trasferisti a Roma dove la tranquillità dell’impiego ti permise non solo di collaborare con le migliori riviste letterarie del tempo, la Nuova Antologia, la Rivista d’Italia, il Minerva, La Festa, Cronache d’Italia e tante altre, ma anche di continuare la tua lunga ed operosa produzione poetica che costituirà di Albanella, la tua terra, il suo tesoro più prezioso. Con le edizioni L. Cappelli di Bologna, nell’anno 1925, pubblicasti infatti il tuo primo poemetto “Bestie Eroiche”, una favola grottesca, in cui, venti anni prima de’ “La fattoria degli animali” di George Orwell, tu, maestro, immaginasti che alcuni animali decidendo di ribellarsi agli uomini scappano per andare alla ricerca della libertà, ma la libertà, come impareranno presto ed a loro spese, la libertà costa impegno, fatica ed obbligo di governo e quindi, molto presto si pentiranno e decidendo di ritornare di nuovo dal vecchio padrone, acquistata una nuova e assai più tragica dimensione della vita questa, maestro, poi in versi, la loro amara conclusione che sembra essere tanto anche la … nostra: “Or si ritorni alle fatiche usate,/ ma con anima nuova… Scudisciate / uomini, e dietro a voi chi mai scudiscia? / Dateci un peso, e un altro ne portate,/ schiavi voi stessi… e la catena striscia / intorno al nulla, per le vie tracciate / dal dolore di tutti… O gran tristezza! /I sogni? oh! son la benda / di chi davanti a sé non sa guardare”… I sogni? oh! son la benda / di chi davanti a sé non sa guardare:/ si gitti! Si ritorni e si riprenda / il posto vuoto, ma con altro core, / bardati di silenzio e di silenzio /e ad occhi aperti, per guardare in faccia la verità!” …Un’opera alta di autentica di poesia che camminando per versi in strofe raccolti e per rime solerte di antica tradizione poetica italiana fu, come leggeremo, giudicata molto positivamente dalla critica non solo per i temi eterni eppure sempre attuali e forse lungimiranti che vi sono trattati ma anche per la poesia che vi trasuda copiosa. Queste infatti, e mi piace di riportarle, maestro, le parole lusinghiere parole del grande filosofo Benedetto Croce: “Gentilissimo Sig. Vernieri, Mi congratulo con Lei del Poemetto Grottesco. Confesso che ho cominciato a leggerlo perché le avevo promesso di leggerlo; ma con altrettanta sincerità le dico che ne ho continuato la lettura per l’interesse che ha saputo destarmi subito, sin dalle prime strofe. Mi è piaciuto per la verità dei caratteri, delle scene, dei paesaggi, per la saggezza che vi spira dentro, per la poesia che vi è cosparsa. Ella ha fatto una bella cosa, e nella migliore tradizione italiana. Mi auguro che troverà estimatori, tra i quali per intanto si ascrive il suo dev.mo” che lodando la tua poesia fa eco a continuare ad uno dei più famosi critici letterari del tempo che così ebbe a plaudire al tuo poemetto: “Egregio Signore, Ho cominciato a scorrere il Suo poemetto, glielo confesso, con molta noia, ma poi sono andato avanti con vivo interesse, e non l’ho lasciato più sino alla fine. Ella ha molta maestria di rima e, quel che più importa, un’anima di poeta malinconica e accorata. La Sua visione della vita è completamente pessimista, ma di un pessimismo sentito con sincerità, fin nel profondo dell’anima. Qualche volta Ella si è lasciata andare un po’ troppo e ha tirato più in lungo che non si doveva: qualche taglio che sveltisca non nuocerebbe. Però, i caratteri dei suoi eroi subumani sono disegnati con efficace rilievo, e il lavoro è vivificato da un’onda di malinconica poesia che lo percorre tutto. Assai belli i passi sull’uscita notturna delle bestie e l’altro in cui si rivela al mulo il segreto della sua schiavitù notturna alla macina. Insomma, in tanto deserto, una goccia di poesia. Me ne congratulo con Lei e ne traggo lieti auguri pel Suo avvenire. Cordiali saluti dal suo dev.mo. Adriano Tilgher.
Seguirono poi prima la” Rinunzia” e poi a breve distanza quei “Racconti francescani” una reinterpretazione lirica dei “Fioretti” di San Francesco in cui per la prima volta si annuncia quell’amore per la terra e per il lavoro dell’uomo che troverà pieno compimento nelle opere tue successive e che, ricordi, maestro, tanto piacque e non solo alla critica, molto contribuendo a consolidare il tuo impegno di poeta che …si dichiarò poi assoluto e totale quando nell’anno 1931 per i tipi della Carabba di Lanciano pubblicasti “ La favola del tempo perduto”. Ancora un poemetto in versi in cui il tempo ragionando di se stesso svela agli uomini il segreto per non sciuparlo, tutto, ebbe a scrivere un altro grande critico del tempo, raccolto in una veste assolutamente poetica e tersa che nulla concedendo alla retorica avanguardista del suo tempo si risolve in un canto antico (sono le tue strofe, maestro, tutte sestine!) eppure nuovo e sempre presente. A tutti gli uomini ricordavi infatti, maestro, che nella vita è dato un tempo, il“kairos” dei nostri padri greci, un tempo per dare senso alla propria vita e spetta solo a noi di riconoscerlo e di non mai sprecarlo, perché “ io sono il tuo tempo …peggio per chi dorme / chè fa la stradae ma non lascia orme” e nessuno senza di me può farsi uomo migliore: troppo effimero, illusorio ed insidiato è oggi il nostro tempo. Ti avviavi così, maestro Vernieri, con questo poemetto ad abitare anche tu l’Olimpo dei grandi poeti e così tornando al tuo Cilento ed a quella civiltà contadina che non aveva mai dimenticato ( tornavi sempre ogni estate ad Albanella, dove suo fratello Alberto ospitandoti nella sua grande casa “Ncapaselice” continuava e continuò anche dopo la sua morte a custodire ed a coltivare, come leggeremo, la tua memoria, pubblicando postume altre tue opere! ) nell’anno 1933 desti alle stampe un nuovo più appassionato poemetto “ Pane e Terra” in cui in versi rimati si narra di un giovane contadino cilentano, di nome Gianni, che costretto a lasciare la propria terra natale emigra in America con la vana speranza di una vita migliore. Ma il duro lavoro della miniera, la lontananza e la vita spersonalizzante delle metropoli americane lo gettano in una profonda melanconia e “così una sera prese l’organetto / dalla bisaccia, e fra le note mozze, / che parvero singhiozzi del suo petto, alfine ritrovò semplici e rozze / le sue parole:quelle che non osa /parlareillabbro,chesonfreddeespoglie / senza il motivo, e son come la rosa / che vuole colta il gambo e le sue foglie./ Dicevano così: “Fior dicirase, / lu core è casa e j’ te l’aggio chiuso; / ma senza aprì la porta, tu nce trase / come auciello oi né pe lu purtuso” e … fu tanta poi la nostalgia che quel canto gli sollevò che in mente con forza gli tornò prepotente il ricordo della mamma afflitta e quello della fidanzata in lacrime ed ancora degli amici e di quel suo piccolo paesello adagiato sulla collina difronte al mare che in silenzio lo aveva visto partire e che ora in silenzio raccolto lo aspettava e decide di … ritornare, tutta raccogliendo in questi versi amari quella dolorosa esperienza: “L’America ? L’America è il Cilento, / che ti dà casa e terra se lavori:/ dove se perdi un chicco di frumento / trovi la spiga; e trovi pianta e fiori / se un nocciolo vi sputi di susina. / La terra lì la misuri a giumelle, / chè se semini lucciole a mattina, / a sera, dentro l’orto, trovi stelle”. Il Cilento una terra feconda ed antica che conosciuta ed amata ancor di più potrebbe e con che gioia nutrire e sostenerci ancora tutti. Venne poi, maestro, l’anno 1934 della XIX Biennale d’Arte Internazionale di Venezia e tu, maestro, con la tua nuova raccolta “Liriche d’oggi” fosti protagonista così compiacendosi uno dei giurati che ti premiò : “Al quale ( Vernieri) bisogna assegnare il merito, non piccolo, di aver rinnovato forme che ci credevamo soppresse, ed aver ridato linguaggio a sentimenti per i quali sembrata sbarrata la via della poesia” … poesia della migliore tradizione italiana sulla quale forse troppo pesò quel modo straniero di poetare che veniva dalla Gallia e che forse tu, maestro, pur conoscendolo e dio solo sa se non lo conoscevi non volesti avvisare a differenza di altri che cogliendolo invece si portarono avanti e tanto salirono in alto da toccare e conquistare le vette dello stesso premio Nobel. Ma tu, maestro, fosti coerente e rimanendo fedele alla tua musa italiana continuasti e tornando ai temi della tragica condizione del vivere umano, dopo solo qualche anno pubblicasti la raccolta “Musica in Soffitta” a cui seguirà appena l’anno dopo nel 1939, “Le noci di fra Galdino” che vinse il premio “Fusinato” della Società Italiana degli Autori. E sebbene il titolo sembra rivolgersi ad un pubblico di ragazzi ed è chiaro, non solo per l’utilizzo della favola ma anche per gli elementi archetipi della natura il tuo intento didascalico, in realtà le tue “noci”, maestro, in un tempo in cui “ il fascismo si era fatto fiero” ed alle porte insisteva già furiosa la Seconda Guerra Mondiale, tu intendevi parlare a tutti perché non dimenticando nessuno quella favolosa “vichiana” epoca dell’oro e tu, maestro, ben conoscevi di Vico i “corsi e ricorsi”, dove ancora gli animali con le cose parlavano e parlando agli uomini, per morale, avrebbero potuto insegnare il cammino. Ed ecco allora la favola del fuoco, il ceppo buono nel camino che scoppiettando riscaldava le lunghe notti d’inverno narrando della zappa che faceva contento il contadino ed del buon vino che faceva rossa la tavola nei giorni di festa. O ancora quella dell’acqua cui il dito di Dio indicandole la via la chiama al suo destino di farsi prima nube e poi pioggia che scorre nei fiumi e farsi vita feconda alla terra e fresco ristoro al viandante che va e ci … par di sentire con te, maestro, il suono di quel tempo lontano, di quella antica dimora, di quella mia infanzia perduta che fu, maestro, il tuo tesoro e vorrei fermarmi, riposare con te in questo tuo mondo in cui aleggia ancora la fede e quell’alito di Dio che facendosi parola crea il mondo, ma devo andare e continuare chè altre sono e tante ancora le tue opere ed il mio “giornale “ me le comanda. E non posso a vanto tuo e di Albanella, che volle scolpirlo nel marmo, non ricordare, maestro, che crescendo nel mondo della poesia il tuo nome, nell’anno 1940, fosti, per chiara fama, dal ministro della pubblica istruzione di allora chiamato a ricoprire la cattedra di “Letteratura Poetica e Drammatica” del Conservatorio di Santa Cecilia in Roma e che tu, maestro, onorasti continuando con quella che sarà la tua stagione teatrale. Iniziasti, ricordi, con la traduzione della tragedia ”Andromaca” di Racine prima e poi con quella ben più sentita del “Poliuto” di Corneille e della quale tu stesso ne’ “Il dramma della fede” scrivesti che la sua vocea poco a poco” si sovrappose alla mia e parve infine la mia stessa voce, quella intima della preghierae dei colloqui con Dio” e che sempre con grande partecipazione “commossa” del pubblico fu poi più volte rappresentata al Teatro Argentina di Roma con grande successo. Ma mentre il teatro applaudiva e le sue luci si andavano spegnendo tu, maestro, già pensavi ad una nuova opera e fu così nell’anno 1948 vide la luce ancora “ La Favola dell’Uomo” un lungo poemetto di genere biblico in cui per la storia del primo libro della “Genesi” ti interroghi, maestro, e vai alla ricerca di quelle furono le radici di quel primo peccato di Eva e di suo figlio Caino che poi tragicamente ricaddero sull’umanità segnandone per sempre il cammino nel sangue …certo erano gli anni del dopoguerra e le macerie di quella guerra forse erano ancora lì fumanti nella assurda follia di un secolo che non amasti, maestro, e sul quale così piangesti: “O Novecento, secolo bizzarro, / che ti trascini dietro incatenata / la saggezza dei padri, sul tuo carro / stride svampando in torbida fiammata / la tua bandiera fosca; e la follia, / selvaggia amante, ti addita la via “ che nessuno uomo dovrà mai seguire. Intanto avanzavano i tuoi anni, maestro, ed ancora una voltaalla tua porta bussò la poesia e fu la tua ultima opera regalata ai tuoi tanti stimatori, quella “Cena dei Poveri” in cui, per novelle, continuasti a scrivere della umile e faticosa esistenza di quei tanti contadini del sud che pur “vinti” non perderanno mai, con Dio a conforto, la speranzadi un mondo migliore … un mondo, maestro, che purtroppo sembra continuare a durare ancora molto più ingiusto e spesso addirittura spietato in quei tuoi due romanzi postumi il primo di natura “autobiografica” e rivolto ai ragazzi dal titolo “Io e il Gendarme” in cui tornando ai primi anni della tua dolorosa infanzia narri “ i dolori” di un bambino soprannominato “sputafilo” eri tu, maestro, costretto a crescere lontano dalla propria famiglia tra i rigori di uno zio troppo severo e l’impotenza di una zia troppo succube ed… ancor di più in quel tuo secondo romanzo postumo “ Diario di una donna perduta” che, come è scritto in epigrafe allo stesso venne e solo nell’anno 1981, sedici anni dopo la tua morte, pubblicato “per volontà di tuo fratello Alberto e dell’editore Parallelo 38 ,come scrissero, “nella certezza di offrire alla letteratura, attraverso pagine meravigliose, il prezioso documento di una profonda indagine psicologia” che dipanandosi per i fili di una donna spinta sulla strada dalla miseria invano tenta il riscatto ricadendo più e più volte nello stesso male che esiste e che inesorabile avvolge l’uomo e che solo la dura fatica dei campi insieme alla fede in Dio può fare vincitore… come tu stesso affermi in quella semplice eppure intensa tua poesia in cui ancora una volta un contadino cilentano per te, maestro Vernieri, facendo testamento e mi perdoneranno i miei venticinque lettori meno uno se la riporterò per intera, ma è troppo bella: “Diceva il padre: – Per lasciarti il mio / non ho bisogno, o figlio, di notaio: / la zappa e il ronco. E rendo grazie a Dio / che mi salva da penna e calamaio: / lo scritto, come il rovo, mette unghioli /sugli stracci dei poveri figlioli. / La zappa, il ronco ed il bel sangue rosso, che, come il vino nuovo, t’arde in petto: /questo ti lascio; e ciò che porto addosso: brache e cappello; e questo bel trincetto,/ che taglia il nostro pane
di granone, e fa da companatico al boccone. / Poi ti lascio la vista in godimento / di questa valle seminata a grano / con quelle pietre bianche per armento,/ e quel cerro lassù per guardiano./ Quest’è lapatria, e mettevi radice come l’ulivo sulla sua pendice. / E sii contento d’essere bifolco:/ l’orto non è di chi lo tiene scritto;/ ma di chi v’apre con fatica il solco,/ e nel solco col tacco sta confitto / fra zolla e zolla, e scritto gli ha il confine / la siepe, sulla palma, con le spine. / Diceva il padre: – Per andare in cielo / non ho bisogno, o figlio, d’acqua santa;/ ché, come il girasole sullo stelo, / d’acqua sul capo, a verno, n’ebbi tanta / – acqua e vento-; ma tenni sempre il volto,/ anche frustato a sangue, a Dio rivolto. /Non v’è bisogno per le mie quattr’ossa / di lapide e d’esequie. Tutto costa:/ pianto e ceri, il viatico e la fossa,/ ed il becchino mi fa la posta. / Il tuo denaro non buttarlo invano:/ dallo alla terra, che lo rende in grano. /Ma quando sarò morto, tu, figliolo,/ prendimi a spalla chiuso in un bel sacco, / e fammi il fosso ai piedi del querciolo,/ sul ciglio del vallone; e ancor col tacco /starò confitto in questa terra amica,/come la stoppia che fu già spica. / E dopo con due rami fa la croce, / e lasciavi la giacca appesa al vento: /non potrò dare ai passeri la voce,/ che vengono a far danno nel frumento;/ ma agiterò le maniche, e, pur morto,/ in silenzio farò la guardia all’orto.”.
E come è oramai nostro antico costume anche per te, maestro, c’è un nostro epigramma: “Albanella ti tiene e riposa il tuo corpo ma vola alta la tua poesia e canta con te il contadino cilentano ed…oltre!
Questo, maestro, nei giorni del gennaio capitale l’amore intellettuale …il fiore che ti porto!
(Chiusa nelle ultime ore notturne del giorno del 12 gennaio 2020)