Proseguire gli studi dopo la scuola primaria a Felitto, Il Paese che mi diede i natali, era un serio problema di difficile soluzione. Nei paesi lontani dalla città, mancava, in illo tempore, qualsiasi tipo d’insegnamento secondario; e spesso si ruminava la decisione d’indirizzare i ragazzi al seminario diocesano. All’inizio dell’anno scolastico 1918-1919, accompagnato da mio fratello Luigi, il terzultimo della mia numerosa famiglia, ché tutti gli altri, dopo l’armistizio della prima guerra mondiale, stavano ancora sotto le armi, entrai nel seminario di massa, nei pressi di Vallo della Lucania. Riusciva problematico allora recarsi in quella zona sia con mezzi pubblici, che erano molto distanti, sia con quelli privati affatto inesistenti. Nei due anni che trascorsi prendevo di solito una scorciatoia in groppa a un asino o ad una giumenta, che era il mezzo di locomozione più sbrigativo, sotto la guida di un vicino di casa, denominato “Vitu u’ pustiare”. Si è impresso nella memoria quel primo doloroso distacco della mia famiglia e dalla mia terra. Mi sembra di averlo sofferto ieri. E’ proprio vero il motivo ricorrente nella meditazione degli asceti e nel canto dei poeti: “Dalla culla alla tomba è un breve passo”(Zanella). Non potevo supporre, però, che quel distacco sarebbe stato definitivo come quello di Abramo, a cui il Signore disse: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre verso il paese che io ti indicherò” (Genesi, 12,1).
La generazione felittese di oggi stenterà a immaginarsi le condizioni economiche e sociali della mia generazione. L’abitato, che cominciava al “Muraglione” e terminava a Piazza Mercato, alias “Orticello”, difettava di tutto, persino di sufficiente acqua potabile. Un filo d’acqua scorreva a singhiozzo dall’unica fontana che si ergeva solenne come un monumento in detta piazza, dissetando a un tempo uomini e bestie. Le donne del popolo, che costumavano camminare a piedi scalzi, vi attingevano l’acqua da bare, servendosi di barili di legno, che trasportavano sul capo con civettuola scioltezza. Alle altre necessità domestiche si sopperiva con acqua piovana e con quella del vicino fiume Calore. Nella vasca sottostante al getto si abbeveravano le bestie da soma. E’ ovvio che, a causa della scarsezza d’acqua, sarebbe stato un sogno impossibile pensare all’attuazione di un qualsiasi tipo di rete fognaria, sicché nessuna abitazione, né plebea né patrizia, poteva vantarsi di servizi igienici non dico regolari, ma tollerabili. E lascio immaginare al lettore quali fossero quelli sostituitivi.
Asini, polli e suini convivevano con gli uomini e, ragliando gli uni, schiamazzando e grugnendo gli altri, passeggiavano indisturbati per le vie del paese, gremite di stalle maleodoranti. Insetti d’ogni specie: mosche, scarafaggi, cimici, pulci e persino pidocchi, ugualmente ributtanti e molesti, spadroneggiavano nelle case, costringendo gli autentici padroni a un’impari lotta per la mancanza di efficaci insetticidi, che furono introdotti in Italia dalle truppe americane nella seconda guerra mondiale.
Le abitazioni a pianterreno, annerite dal fumo e dal tempo e maleolenti, somigliavano a topaie; i piani superiori mal ridotti, i palazzi gentilizi fatiscenti; e qua e là per la campagna apparivano casupole inospitali, a cui si accedeva attraverso viottoli e impervie straducce vicinali.
Si lavorava, si studiava, si leggeva, si scriveva al barlume di lucerne di creata ad olio portatili, dette comunemente “Candele”, o, in via eccezionale, di lumi a petrolio, giudicati pericolosi. Di notte si circolava per il paese con lanterne o con tizzi.
L’analfabetismo era diffuso, specie tra le persone che risiedevano in campagna, il problema dell’edilizia scolastica, inesistente; un gelido ed umido pianterreno di Via Centrale allogava la scuola elementare da me frequentata.
All’insegnante pubblico spesso si accodava un ripetitore privato da strapazzo, che sceglieva a bella posta per esercizi di dettato proposizioni di questo tipo: “Al maestro piacciono le ricotte”; e per esercizi linguistici: “Dite una parola italiana che comincia con la lettera esse; e gli alunni tutti in corpo prorompevano: “Strummolo”! Alla risposta faceva eco, naturalmente, un solenne “Bravi!” dello pseudo maestro.
I ragazzi che avevano la possibilità finanziaria di continuare gli studi si contavano sulle dita. I laureati erano mosche bianche. Passando alle attività commerciali, servivano il paese un paio di negozi di generi alimentari, che smerciavano solo pochi prodotti essenziali; pasta, riso, baccalà, zucchero, caffè, chicche varie o un quid simile; di generi diversi ve n’era soltanto uno. Non mancavano invece gli artigiani: calzolai, sarti, falegnami, eccetera. Austero era il regime alimentare, il piatto forte delle famiglie veniva fornito dai prodotti della terra. Ma i poveri, e ce n’erano a bizzeffe che non possedevano nulla di nulla per sfamarsi, dovevano accontentarsi di pane e d’insalata o di quant’altro ricevevano per elemosina dal buon cuore dei vicini benestanti. La macellazione bovina era un lusso, fattibile solo nei giorni festivi o quando capitasse agli animali un sinistro. Nelle domeniche ordinarie invece si macellava la capra. Un’economia così depressa influiva sulla circolazione dei beni di consumo e di denaro, che in taluni casi era sostituito dal baratto, ad esempio utensili domestici in cambio di fichi secchi. Non meno grave – ne ho fatto cenno all’inizio – era il problema dei trasporti. La strada provinciale – ora nazionale – era battuta da una sgangherata carrozza a mantice, trainata da un ronzino, che in salita costringeva l’anziana auriga ad appiedarsi per facilitarne l’andatura, e collegava Felitto con la stazione di Albanella e con i paesi circonvicini.
Non va taciuto infine lo stato miserevole del cimitero, che denota quanto fosse debole nei vivi il culto dei morti. Un cimitero paludoso, franabile, con crepe nel muro di cinta, che permettevano alle bestie il libero accesso. Un gruppetto di cappelle diroccate o scalcinate e uno sfasciume di tombe con croci rovesciate, da cui emergevano talvolta persino ossa di cadaveri. Un cimitero disadorno, in balia delle ortiche e delle bestie, spoglio di fiori e di piante, di rado visitato e confortato di pianto, in una parola, abbandonato. Quest’è, in poche linee, il fosco quadro di Felitto all’inizio del 1900 e all’aurora della mia vita. Un paesino, se non proprio una “terricciuola” come lo chiamo Vincenzo Moreno nel suo elogio funebre di Matteo De Augustinis, letto all’Accademia Pontaniana nella tornata del 22 febbraio 1846. Un paesino, ripeto, che trascinava una vita primitiva, penosa, depressa, dove più che la povertà vi regnava la miseria, che dava esca, (niente è nuovo sotto il sole) purtroppo a casi di usura e di strozzinaggio!
Ricordo un solo evento notevole per quei tempi: la costruzione della centrale elettrica in contrada Casale, che attraverso un canale costruito lungo la costa della montagna, alimentava con l’acqua del Calore non solo Felitto ma anche altri paesi, compreso Vallo della Lucania. Ma com’è oggi questo paese, al principio del ventunesimo secolo e del terzo millennio? Ne farò cenno nel prossimo numero di questo periodico.