Per la cristianità l’Asia rimane la grande sfida missionaria del terzo millennio per cui risulta ancora attuale il tentativo di Matteo Ricci di proporre in modo culturalmente diverso il Vangelo per evitare alle chiese nel continente di rischiare di scomparire dovendosi confrontare con una quotidianità fatta di molteplici problemi, determinati dalle situazioni di crisi in cui vivono. Esse sono causate da interlocutori aggressivi, spesso proni a fondamentalismi religiosi, come nel caso del Pakistan e di alcune regioni dell’India, o perché divise al proprio interno tra patrioti e clandestini, come in Cina e, nelle situazioni peggiori, ridotte al silenzio e al nascondimento come in Corea del Nord. L’importanza dell’Asia per la cattolicità fu già prevista un secolo fa da Benedetto XV, papa europeo ma sensibile all’attività missionaria della Chiesa nel mondo, all’Oriente cattolico, alla presenza in Cina. La mancata apertura di questa immensa realtà è stato un cruccio per Wojtyla, che ha desiderato andare a Pechino. Il dialogo anche nei momenti di maggiore intensità incontra molteplici obiezioni tra i quali emerge il problema di Formosa, la nomina dei vescovi e il futuro della chiesa patriottica riconosciuta dal governo cinese. La delegazione di Pechino fu assente ai funerali di Giovanni Paolo II perché erano presenti i rappresentanti di Taiwan, anche se il segretario di stato, cardinale Sodano, aveva asserito che, aperta la rappresentanza della Santa Sede a Pechino, vi sarebbe stata trasferita la nunziatura di Taipei. Comunque persistono piccoli segnali che fanno intravedere l’intenzione di dialogo anche perché i cinesi sono coscienti che aprirsi al capitalismo e non porre attenzione ai valori spirituali costituisce una pericolosa insidia per il mantenimento di un tessuto sociale stabile e armonico. Del resto, i missionari costatano che il radicamento del buddhismo o dell’induismo nel contesto asiatico deve fare i conti col processo di secolarizzazione e l’influsso dei modelli omologanti della globalizzazione. In questo immenso continente i cristiani rimangono una sparuta minoranza e il vangelo dalle maggiori religioni asiatiche è ancora considerato una minaccia alla propria identità perché estraneo alla loro mentalità. Si pensa ancora che le chiese cristiane siano controllate da potenze straniere, quindi oggetto di riserve anche quando sono bene accetti benefici sociali come l’istruzione. In realtà, gli asiatici sono soddisfatti della loro religione, ritenuta parte integrante della società; perciò considerano il cristianesimo tendenzialmente un culto straniero, convincimento che potrebbe ribaltarsi qualora dovesse mutare l’atteggiamento cinese.
La Cina rimane l’unico grande paese del quale la Santa Sede non riesce a fornire precise informazioni su vescovi e diocesi. E’ una realtà per molti versi ancora misteriosa nonostante il tentativo di penetrazione fin dai tempi di Matteo Ricci, le cui intuizioni, troppo avanzate per l’epoca, oggi sono di evidente attualità per l’attenzione al culto dei morti, degli avi, di Confucio. Per due secoli si sono pagati gli errori dell’intransigenza romana. Non si è riflettuto sulla conseguenza presso i cinesi di un cristianesimo rimasto straniero e percepito come espressione di potenze pronte a strumentalizzare patronati e protettorati per giustificare privilegi commerciali. Solo negli anni Venti del Novecento, grazie all’azione del delegato apostolico Celso Costantini, si è cercato di attutire i contrasti ordinando nel 1926 i primi vescovi locali. Cominciava ad esistere una Chiesa cinese. Nel 1949 essa presentava una precisa strutturazione con 20 province ecclesiastiche, guidate da 20 arcivescovi, 83 diocesi e 35 prefetture apostoliche. Pio XII nel 1946 aveva nominato anche il primo cardinale, tuttavia Mao pretendeva che in Cina anche il cielo dovesse essere cinese. Accusata di complicità con l’imperialismo occidentale, la chiesa fu soggetta a una lunga persecuzione, i missionari espulsi, i vescovi arrestati. Il Partito sollecitò all’Associazione patriottica dei cattolici la completa sottomissione e la condanna della Santa Sede. Si riuscì a conservare l’ortodossia dottrinale; ma in seguito anche i cristiani patriottici furono sottoposti a persecuzione. Con la rivoluzione culturale gli aderenti e chi si era rifiutato di appartenervi si trovarono insieme nei campi di rieducazione. Solo con Deng Xiaoping si è avuto un ammorbidimento e nel 1978 la costituzione ha ripristinato la libertà di credere in una religione. Negli anni Ottanta e Novanta si sono alternate disgelo e recrudescenze, mentre considerazioni di ordine geopolitico hanno influito sugli equilibri religiosi, ma non hanno ancora aiutato a superare l’incomprensione e la persistente diffidenza fra Cina e Santa Sede circa le reciproche intenzioni.
Un compromesso potrebbe derivare dall’intuizione di Matteo Ricci che, nel disegnare la carta del mondo per l’imperatore, pose la Cina, anche se piccola, al centro del mondo. Così a Pechino si accreditarono i gesuiti presso la corte, comunque infastidita dall’azione dei francescani nelle campagne perché aiutavano la povera gente e i perseguitati generando sospetti. Una società pragmatica e antimetafisica reagiva con spavento alla vista del Crocefisso, sostituito con l’immagine della Madonna, in .parte coincidente con la visione femminile del Buddha della misericordia. Si cominciò a ostacolare una fede che portava scompiglio nella società, mentre Roma richiamava i gesuiti ritenendoli troppo assimilati alla cultura cinese, un evidente errore perché fece perdere i contatti.
Questa è la Cina alla quale si rivolge Francesco, che ha chiamato a raccolta molti gesuiti per collaborare al grande disegno per superare scelte di scuola che nel passato hanno causato la costruzione d’invalicabili muri. La Compagnia di Sant’Ignazio, protagonista dell’esperienza delle reducciones in Paraguay e in Argentina per tentare di porre riparo a insopportabili ingiustizie, ha reiterato con padre Matteo Ricci gli sforzi per comprendere nella giusta luce e percependo il vero significato e i valori della cultura cinese. In passato ci si è scontrati con la chiusura mentale di chi si riteneva custode unico della verità rivelata; oggi la diplomazia vaticana è chiamata a collaborare col papa. La Segreteria di Stato è impegnata a tempo pieno per dare uno sbocco concreto alla dichiarata simpatia di Francesco per la Cina, che nella geometria poliedrica del papa non è considerata una lontana periferia; del resto, non poteva essere altrimenti per un papa gesuita. Il ruolo attuale e potenziale che Pechino è chiamata a esercitare non può determinare disinteresse per un soggetto attivo ed influente nelle relazioni internazionali, capace di contribuire a stabilizzare la condizione di pace e influire positivamente irradiando la sua millenaria cultura. La convergenza di azione può trovare una base nell’operare per la pace globale. Del resto il dialogo può trovare un inizio non nella convergenza d’interessi per spartirsi qualcosa, ma anche solo nella constatata convenienza d’iniziare a camminare insieme. L’interesse cinese per la Nuova Via della Seta, pur se programmata per contrapporsi all’egemonia statunitense, si propone integrazione economica e cooperazione culturale, opportunità per cementare l’unità eurasiatica trasformandola in perno geopolitico del secolo. Il papa si fa apprezzare per lo stile sobrio e austero in un immenso paese che ancora conserva il ricordo benevolo di Matteo Ricci. E’ una sfida che trova riscontro nella spiritualità dei gesuiti, attenti a ricercare Dio in tutte le cose, quindi particolarmente ricettivi nell’apprezzare culture diverse. Bergoglio, che valuta positivamente i progressi cinesi, non si propone strategie di proselitismo, attende solo un’apertura di credito per iniziare un proficuo scambio culturale e superare un’estraneità di dialogo che da sempre ha costituito il vero ostacolo nei rapporti della Cina con la Santa Sede. L’esperienza pregressa con Pechino del cardinale Parolin consiglia di superare agende orientate da principi politico-giuridici intesi a difendere un’astratta libertà religiosa per non costringere sulle difensive le autorità cinesi.
Per superare secoli d’incomprensione l’agenda papale ritiene indispensabile recuperare le relazioni con la Cina. Per far ciò la Santa Sede offre alternative credibili, che possono soddisfare il desiderio di spiritualità dei cinesi appena messi da parte muri politici e diplomatici. La stessa espansione economica e geopolitica cinese nei contesti cattolici dell’America Latina e nell’Africa obbliga a incontrare il Vaticano, dove la questione cinese è vista da prospettive diverse; tuttavia, accettare il dialogo con Pechino aprirebbe nuovi scenari. La Chiesa cattolica può rivelarsi decisiva per far incontrare culture, processo difficile ma inevitabile per superare passati scontri di civiltà. Proprio queste premesse aiutano a comprendere la portata dell’occasione persa da Xi Jinping nel dare prova di realpolitik praticando il soft power nella recente visita a Roma con la rinunzia ad andare in Vaticano. Avrebbe potuto rendere più credibile la sua reiterata affermazione che la Via della Seta costituisce un tentativo d’intessere equilibri senza far paventare azioni di hard power. A nulla è giovata la scelta tattica che ha denunciato i limiti della strategia di una guerra dei nervi che, alla fine, dimostra più impliciti timori che equilibrate prospettive di pace nell’entrare in contatto con una realtà cattolica, cioè universale, pur rivendicando la prospettiva globalizzante della propria funzione nelle relazioni internazionali. E’ un prezzo molto alto rinunciare a una protocollare stretta di mano e a un sorriso di circostanza, che sarebbe risultato prezioso, pur conservando tutta la sua enigmaticità, se posto in paragone alla stretta di mano di Bergoglio a Trump. La decisione è stata considerata una mancata conferma di un empatico cambiamento di potenziali alleanze a dimostrazione di come in Vaticano stia mutando la percezione dell’Occidente per l’agognata ascesa dei rapporti con l’Oriente in prospettiva geopolitica.
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