Porre le basi per una nuova geopolitica della Chiesa è il proposito del papa argentino. Egli auspica che la virata possa consentire alla nave di Pietro di continuare a percorrere una rotta che non si accontenta di approdi circoscritti al Mediterraneo o dell’Europa, ma possa dirigersi oltre l’Atlantico verso il Pacifico e le Filippine, ponte naturale, non barriera o muro, “con-fini” grazie ad una collaborazione rispettosa e vicendevole comprensione. Impegnato a comprendere le dinamiche di un’epoca, valutarne le aspirazioni e dare adeguate risposte istituzionali per rinverdire la speranza dei contemporanei, Bergoglio emerge come leader globale assumendo indubbia autorevolezza che contribuisce a disorientare la lobby dei curiali, sovente dimostratasi incapace di comprendere i processi in atto. Il percorso tracciato dal papa risponde alla convinzione che una virtuosa globalizzazione sia nel codice genetico del Cristianesimo; perciò, si pone l’obiettivo di andare in tutto il mondo e realizzare l’unità del genere umano per porre riparo alle disuguaglianze sociali e continentali. Chi ha responsabilità di governo deve operare un paziente e umile lavoro per il bene comune, missione difficile per un papa che si sente circondato dai populismi in Europa, oltre l’Atlantico e oltre i confini asiatici, ostacoli ad un disegno inclusivo.
Fede, pazienza e carità col guazzabuglio islamico
Francesco è convinto che il dialogo interreligioso deve proseguire col proprio carico di speranze, messaggio rivolto ai musulmani dal Marocco all’Indonesia, in un arco di 12 mila chilometri. Egli è consapevole che destino degli uomini che cercano Dio con sincerità è camminare insieme; non ha difficoltà a scendere dalla cattedra per instaurare un nuovo stile nei rapporti con un Islam, realtà che annovera una miriade di obbedienze e di appartenenze. Alle aperture a Putin nel 2013 e agli ayatollah nel 2014, scelta che ha rimesso in gioco Russia ed Iran, egli affianca all’impegno religioso la trama del suo disegno geopolitico, nel quale una parte rilevante è data dall’alleanza tra le antiche civiltà del Medio Oriente. Il papa ha preso posizione asserendo che è meglio non credere che essere un falso credente, parole pronunziate durante la messa al Cairo. La preghiera rivolta a Dio serve poco se non si trasforma in convinto amore per il fratello; perciò, l’unico estremismo ammesso ai credenti è quello della carità, altri non possono venire da Dio. Per proteggere le chiese cristiane di qualsiasi confessione e fronteggiare l’ISIS, Bergoglio si è fatto carico della responsabilità di recuperare l’intesa con la componente sunnita, l’80% del mondo islamico. A intraprendere il viaggio in Egitto lo ha spinto la fede nell’unico Dio misericordioso e la speranza che l’esperienza secolare di civiltà e di patrie mediorientali possa porre un freno agli spericolati protagonismi di Washington che opta per superati e insostenibili unilateralismi. Il papa si propone di sostenere gli operatori di pace nel mondo per venire a capo della ferocia di chi ha dimenticato ogni umanità precipitando in un’indescrivibile barbarie.
Il nodo gordiano siriano costituisce uno dei problemi più complessi nell’agenda di chi intende salvaguardare la pace. In Siria operano soggetti vicendevolmente nemici, non esiste un piano preciso per pervenire a una credibile soluzione. La complessità è determinata dalla traumatica rottura di una situazione durata dodici secoli, che ha visto in azione un impero al cui interno fazioni tribali hanno strumentalizzato credenze religiose per accreditare opzioni politiche e di potere. Con la fine dei due blocchi e l’emergere della globalizzazione, in Siria si combatte un tremendo conflitto per gli interessi contrastanti di Turchia, Iran, Arabia Saudita, alle quali si è affiancato Israele, che ha l’interesse a deporre Assad per annettere le alture del Golan, strategicamente importanti. Sono motivi di contrasto tra soggetti impegnati a garantirsi lo status di potenza regionale dopo la confusione determinata dalla fine della guerra fredda, dalla distruzione dell’Iraq, dalle disillusioni delle primavere arabe. La Russia cerca di trovare spazio nell’area, mentre il roboante Trump annunzia la determinazione d’imporre la sua prospettiva senza fare i conti con la condizione degli Stati Uniti, potenza globale obbligata a operare con cautela e bloccata dai condizionamenti di lobby interne. La Casa Bianca non ha ancora trovato il modo per trattare con i re sauditi e l’uomo forte di Ankara, che ambisce divenire sultano, e convincerli ad aprirsi alle esigenze di una maggiore integrazione culturale e democratica nel rispetto delle peculiarità migliori delle rispettive civiltà.
La Russia e le speranze ecumeniche
Il bilancio dei tentativi di dialogo col Patriarcato di tutte le Russie non è molto incoraggiante. La situazione potrebbe evolversi per i rapporti che intende tessere l’attuale pontefice, se non altro perché non polacco e non europeo. La collaborazione può risultare vantaggiosa per entrambe le cristianità. L’osmosi va coltivata ponendo attenzione anche alla questione geopolitica, ricordando che la Russia rimane parte integrante dell’Europa, uno dei due polmoni della cristianità, l’occidentale e la slava. Si richiede accresciuta pazienza nell’appianare le difficili relazioni tra Roma e Mosca, scenario complesso per il futuro della Chiesa cattolica. Il confronto interessa aree di confine del tracciato Baltico-Mar Nero, coinvolgendo Ucraina, Bielorussia e altri territori di frontiera, specifici universi culturali e religiosi che riflettono l’antica rivalità russo-polacca alimentata da due messianismi confluiti in negativi pregiudizi, stratificati nella cultura dei due popoli. L’alterità russa è stata sempre percepita come una sfida politica, religiosa e culturale; è stata contrastata perché poco propensi ad accettarla rispetto o paesi geograficamente più distanti, come quelli asiatici. In termini ecclesiali, più che divergenze dottrinali si tratta di questioni culturali e di mentalità. L’utilizzo di categorie della tradizione cattolica e della cultura occidentale per giudicare l’ortodossia russa causa errori che inficiano un’adeguata comprensione, generando diffidenza, ostilità e indifferenza. Perciò, non è minimale ripensare alle relazioni ecumeniche in corso nelle Chiese ortodosse e cattolica secondo l’azione concreta di Francesco rispetto alla tradizionale esperienza dei tentativi d’intesa tra teologi. Il futuro dell’ecumenismo rimanda a un asse che rende evidente come il rapporto tra Roma e l’Oriente ortodosso si decida a Mosca. Esso non è inteso a ridimensionare la Chiesa di Costantinopoli o le altre nazionali, che hanno dato vita a un complicato sistema di reciproche relazioni, scandito dalla gerarchia di onore. La Chiesa russa é ragguardevole per numero di fedeli, diffusione nel mondo, importanza nelle relazioni intercristiane e sugli scenari internazionali. Costruire buone relazioni con le altre ortodossie per indurre Mosca ad essere più conciliante non funziona; invece, maggiore successo hanno rapporti diretti, importanti relazioni per il futuro del cristianesimo e dell’ecumenismo, sfida per superare condizionamenti storici e tentazioni derivanti dal provincialismo dell’autoreferenzialità. Così si prospetta una nuova connessione geopolitica per il ruolo non secondario della Russia negli equilibri mondiali e per l’esperienza del mondo ecclesiastico bizantino. Infatti, l’ortodossia russa lambisce il mondo islamico ed è presente in frontiere cruciali per gli equilibri geopolitici, dal Caucaso all’Asia centrale, soprattutto ai confini dell’immenso universo cinese. I riferimenti religiosi e culturali influenzano gli orientamenti di politica estera, di conseguenza la visione geopolitica ortodossa. Perciò, i rapporti con la Chiesa cattolica acquistano un preminente rilievo per garantire al cristianesimo un’efficace azione come forza spirituale e culturale in grado di mobilitare e influire sulle scelte in un mondo globalizzato ma, contemporaneamente, ancora frammentato. L’efficacia di questa presenza, che si trasforma anche in valido modello operativo, è data dal profilo di unità nella pluralità e nella multiformità che si è capaci di esprimere.
Fine di una cattolicità eurocentrica
Il rinnovato rapporto tra ortodossia russa e cattolicesimo risulta cruciale anche per l’Europa, che deve maturare una rinnovata comprensione della sua storia approfondendo i rapporti con la cultura bizantina così pervadente nelle sue regioni orientali. Infatti, la civiltà europea è un misto di diversità e di sintesi, non riduttiva unità delle differenze ma feconda connessione. Il contributo ortodosso al processo di costruzione europea è una felice prospettiva anche per i rapporti tra Chiesa russa e Occidente per la possibilità di un contributo che rivendica l’originalità del bagaglio spirituale e la disponibilità al dialogo, che esalta la complementarità e l’armonizza accettando le differenze nel rispetto della complessità, del pluralismo, dell’alterità. In tal modo si supera un arido monoculturalismo e si costruisce una convivenza valida nel contesto della globalizzazione.
In Europa l’evoluzione culturale ha prodotto un progressivo disinteresse per la religione per cui sperimenta irrisione, miscredenza o progressiva dimenticanza, pur nella formalità di un credo accettato per tradizione. Si può porvi riparo riflettendo sulla sempre più evidente forbice tra Europa ufficiale e quella popolare analizzando i commenti della cittadinanza al sessantesimo della nascita dell’Europa unita celebrato a Roma. L’evento ha interessato i ventisette capi di Stato e di governo dei paesi che si riconoscono in una istituzione presentata come modello dell’evoluzione occidentale verso la democrazia e i suoi valori, anche se accredita sempre più l’immagine di una costruzione burocratica da rianimare coinvolgendo cuori e menti, non solo interessi materiali. L’Unione, oltre all’ordinario già problematico, deve affrontare il buco nero della Brexit, completare l’unione monetaria e confrontarsi con una globalizzazione sempre più agguerrita con Washington, che persegue opzioni protezioniste. La maggioranza dei leader si è impegnata a consolidare un sogno per il quale ancora si battono tanti cittadini. L’Europa come futuro comune è progetto sottoscritto tra sorrisi e applausi dai rappresentanti dei paesi membri; ma a prevalere sono allusioni politiche, ambiguità verbali ed equilibrismi diplomatici per coprire le smagliature in una comunità che si propone di perseguire la pace, difendere la libertà, rafforzare la democrazia. Tuttavia ancora stenta a radicarsi una Europa sociale nella quale la crescita sostenibile favorisca la coesione e, pur con diversità nazionali, promuova la parità di genere, diritti e opportunità per tutti, un riparo alla disoccupazione, alle discriminazioni, alle esclusioni e all’emergere di nuove povertà agevolando il processo decisionale democratico nella sua trasparente efficacia contro ogni rigurgito populista.
L’Europa, geograficamente e non solo penisola asiatica, nell’attuale congiuntura economico-commerciale subisce le conseguenze delle contese nel Pacifico. Trump non vede di buon occhio un Vecchio Continente unito e ricorre a ogni possibile pretesto per esercitare pressioni su nazioni legate da un patto che impegna a rafforzare la comunità, amalgamata grazie a un programma che vorrebbe fortificare le ragioni di una convergenza delle politiche e porre riparo a congiunture esterne che ne insidiano il futuro. Globalizzazione incalzante e protervia del prepotente di turno impediscono di procedere all’intesa definitiva per realizzare una feconda unità a nazioni che, lungo i secoli, si sono conosciute, sovente combattute e, sessant’anni fa, hanno deciso di condividere un futuro di pace e di prosperità. Purtroppo, alla mercé dell’abbraccio asfissiante e incurante della globalizzazione, assillati da burocrati filistei e tormentati da esigenze di bilancio che pretendono austerità, i singoli paesi hanno dimenticato di realizzare una comunità di uguali per prevenire ogni vento di guerra dopo tanto soffrire. Gli avvicendamenti di una economia tirannica e sfruttatrice agitano infondendo paura, scuotono inculcando egoismi, condannano a non pensare e così patire sempre più scomode posizioni che obnubilano perfino la capacità di ragionare. Perduto l’autocontrollo, nei paesi europei si va diffondendo un acritico populismo, responsabile di scomposte reazioni, incapaci di trovare una strategia comune per liberarsi da lacci sempre più stretti e dolorosi. Non disposti a privilegiare interessi complessivi, che renderebbero attori credibili nel contesto internazionale, ci si preoccupa di quelli settoriali e locali; di conseguenza si continua a soggiacere agli strattoni causati da forze esterne, prepotenti estensori di politiche che sanno di mera ritorsione. Storia, evoluzione dei tempi, vicende di oltre mezzo secolo hanno sottoposto tutti in Europa ad evidente ridimensionamento; vi può porre riparo solo la determinazione nel riscoprire i vantaggi di essere parte attiva di una Comunità di Nazioni, consapevoli che è l’Unione a fare la forza.