La fronte corrucciata dell’apostolo Tommaso dipinta dal Caravaggio è un’icona che evoca ondate di pensieri, domande, rifiuti e riscontri di un uomo affascinato dal mistero di Gesù. Il vangelo gli attribuisce anche il nome di Didimo, che significa gemello, una sorta d’invito ad identificarsi con lui nella ricerca della verità e tanti si sentono partecipi di questa esperienza,. Il fedele spesso non sa cosa credere perché ricerca in Gesù la vera amicizia, ne apprezza la bontà, ammira la santità dei suoi sogni e la portentosa intelligenza, anche se a volte accompagnata da gesti provocatori che si scontrano col buon senso che non abbandona mai chi rimane ancorato all’evidenza del fatto. Ma il Risorto invita a constatare sottoponendosi alla prova per sollecitare la fede personale, aperta agli altri e alla comunità. Per il Didimo odierno, desideroso d’iniziare la ricerca sul Gesù storico, il racconto elaborato dalla tradizione orale costituisce l’unico e autentico tramite per conciliare le conoscenze circa il Cristo del dogma e l’uomo Gesù. Nonostante le apparenze di un diffuso disinteresse della società liquida, Cristo ancora attrae l’uomo il quale, nel chiuso della propria coscienza, si dibatte tra le esigenze di una solare elaborazione intellettuale e i toni sfumati, ma caldi e corroboranti, di un approdo verso una fede fiduciosa. Il cristiano alla ricerca della verità, che salva da un angoscioso quotidiano, deve porsi alcuni problemi circa il senso della vita. Riflettere su questi argomenti può dare la sensazione che, dopo la fede, anche una soddisfatta intelligenza è partecipe della beatitudine di coloro che credono senza vedere.
Nella Galilea delle genti, come è oggi diventato il mondo, è possibile sperimentare la dimensione più profonda e persistente dell’insegnamento del Maestro di Nazareth. Dio l’ha fatto risorgere per illuminare appunto questa prospettiva di vita. Limitarsi ad annunciare di aver visto non toglie la paura, né suscita la fede. E’ necessario sentirsi mandati, accogliere il suo Spirito per aprire finalmente le porte della propria anima, ascoltarlo quando invita a vivere come Lui. Per questo motivo credere non è il semplice gioire alla sua vista, ma mettere la propria mano dentro la sua vita per imitarlo; infatti, il Risorto non è colui che convince con un ragionamento, ma colui che domanda: Mi ami? Amare è seguire anche dopo aver compreso che può essere rischioso. L’esperienza del Risorto non toglie la fatica di vivere in un contesto che arreca dolore, angoscia e morte ma, nonostante i dubbi, le esitazioni, i difetti, le cadute e le brusche fermate costituisce l’unica praticabile risposta al suo invito: Tu seguimi!”
Il papa emerito ci ha regalato tre volumi nei quali presenta a tutti noi la figura di Cristo. Francesco nei suoi interventi conferma il profilo che si desume dalla lettura dei lavori di Ratzinger facendo riferimento all’essenzialità di Gesù per l’uomo del XXI secolo. Nella storia dell’umanità possiamo rinvenire leader obbedienti, a volte anche capi disposti a offrirsi al posto del popolo, ma certamente nessuno può rivendicare le caratteristiche e la funzione dell’agnello pasquale, come asserisce il vangelo, proponendo la similitudine del buon pastore, che è anche la porta di accesso a uno spazio vitale, guida che accompagna nel tragitto della vita conferendole senso, presenza determinante in contrapposizione ai tanti ladri di speranza pronti a profittare del popolo. Questo pastore non mortifica la personalità dei suoi seguaci; il rapporto con lui stimola la consapevolezza di chi ascolta e riconosce una voce che chiama per indicare la strada da percorrere. Cristo, porta del Regno, certamente non propone la propria esaltazione; vuole garantire libertà di scelta a chi, alla ricerca della verità, lo ascolta; Egli intende orientare al Padre e così comunicare la vera vita. Il suo Vangelo è la risposta a questa fame di senso; perciò il buon pastore entra nel recinto e chiama per nome per condurre fuori, in un luogo che dà sicurezza senza togliere libertà. Non si tratta, quindi, di sostituire istituzioni vecchie e oppressive, ma di avviare un processo di liberazione; ecco perché la porta è sempre spalancata. Chi l’attraversa trova la terra dove scorrono il latte della giustizia e il miele della vera libertà, ancora più desiderabili dopo un viaggio che il pastore ha reso rassicurante perché cammina sempre davanti: guida esperta e provvida, apre nuovi sentieri, precede per essere convincente.
Oggi il mondo è pieno di presunti profeti che presentano la propria ideologia come una religione da imporre per far prevalere una visione dell’uomo e del mondo poco liberante. Ma nessun leader animato da buone intenzioni opera per rafforzare un potere proprio, tutti devono correlarsi alla Verità. Chi non agisce in questo modo si rivela un pessimo pastore; distrugge la libertà dei propri seguaci, come i farisei ai tempi di Gesù. Costoro non entravano dalla porta, ma da altri ingressi perché intenzionati a dominare il popolo e governare solo per tornaconto e non per far trionfare il bene comune. Perciò, “chi entra dalla porta, è pastore” è il ruolo che Gesù rivendica con insistenza. Le pecore ascoltano la sua voce; la riconoscono come efficace risposta ai loro bisogni, al desiderio di pienezza di vita. Egli, chiamando per nome, vuole intessere un salvifico rapporto personale, messaggio ristoratore in una congerie globalizzante negatrice d’identità, individualità, libertà.
L’umanità precipitata nella condizione del cieco descritto dall’evangelista Giovanni, attende il segno dal quale dedurre le dinamiche della forza di luce che conferisce speranza alla storia. In quella circostanza Gesù vede lo scarto dell’umanità e si avvicina, mentre gli altri tirano dritto. Egli si ferma, anche se non chiamato, perché per Lui ogni incontro con l’uomo è una meta, al contrario di chi si reputa suo discepolo e, di fronte agli ultimi, bisognosi nati malati o divenuti tali, s’interroga per cercare d’individuare le responsabilità dei limiti, del male. Il cieco è talmente rassegnato alle sue tenebre che non chiede nulla; é Gesù che interviene pronto per una nuova creazione per far penetrare il fulgore della luce dove dominano le tenebre. Al cieco nato è richiesto solo di lavarsi. Il mendicante è pronto ad obbedire; si fida di questo sconosciuto, anche prima che avvenga il miracolo, colpito dal gesto di misericordiosa condivisione, di attenzione non sollecitata. Così egli torna libero, novello figlio della luce. Ma il fatto non determina gioia tra gli astanti.
Questo passo del vangelo è intriso di tristezza: Gesù ha guarito di sabato, grave problema per i farisei; scandalizzati non sono interessati alla persona, analizzano il caso in riferimento alla loro tradizione, immodificabile dottrina che spinge a processare per eresia il miracolato. Il cieco guarito non è ritenuto manifestazione della gloria di Dio, un uomo con la luce negli occhi e l’amore nel cuore, un mendicante rialzatosi, è degno solo di essere processato e con lui Gesù. L’efficace tecnica dell’evangelista propone alla nostra attenzione con sottile ironia una situazione che si riscontra spesso: un non vedente s’imbatte nella Luce ed è capace di vedere, invece chi vede, pur incontrando Gesù, di fatto è cieco alla verità. Non importa la sofferenza di un uomo, si è curiosi di spiarne il peccato alla ricerca del colpevole ritenendo la sofferenza punizione per mali compiuti. Chiedono lumi a Gesù e, sorprendentemente, ricevono una risposta che li confonde, ma diventa viatico per una nostra riflessione. Il Maestro vede la sofferenza e sente il grido di aiuto, ritiene superfluo fornire spiegazioni al perché del male, la sua è una subitanea reazione di compassione per sopprimere il dolore e far trionfare la vita. Il gesto che egli compie non è magico, ma una simpatetica partecipazione alla condizione del non vedente, che si sente toccato e così percepisce che qualcuno si è preso cura di lui, quindi merita fiducia perché ha riconosciuto che è nel bisogno. Mentre nell’animo di un uomo affranto dalla malattia avviene tutto ciò, gli altri si preparano a celebrare il loro sterile e cinico processo. Il cieco rivendica con decisione la propria identità e racconta cosa gli è accaduto. I curiosi gli sollecitano d’indicare dove possa essere Gesù per incontrarlo. Egli non sa rispondere. Per procedere a un definitivo chiarimento lo portano dai farisei perché si pronunzino sulla giustezza del fatto avvenuto di sabato. La sentenza viene presto pronunciata: chi infrange il sabato è un peccatore, quindi non può compiere una buona azione. A questo sillogismo parolaio il guarito, che constata nel suo corpo l’assurdo di quella conclusione, contrappone la sua testimonianza: “È un profeta”, compiendo un altro passo verso la scoperta dell’identità di Gesù. I sapienti ritengono inconsistenti queste parole per cui considerano opportuno interrogare i genitori per accertare definitivamente i fatti. Costoro, conculcando i sentimenti parentali, se ne lavano le mani e rimandano al figlio la responsabilità dell’accertamento di una verità che potrebbe risultare pericolosa. Il dibattimento processuale è alle battute finali: mentre i sapienti asseriscono che Gesù è peccatore, con ironico buon senso il guarito conferma: ero cieco e ora ci vedo e, alla loro insistenza, conferma “l’ho già detto, forse volete risentire la mia testimonianza per diventare suoi discepoli?”. La provocatoria risposta offende la presunta sapienza dei farisei. Gli autoproclamati giudici si riconoscono nella tradizione, quindi non possono ammettere l’evidenza di una buona azione compiuta di sabato. La loro presunta sapienza impedisce di accettare una novità di bene; per loro solo il passato è normativo, legge da rispettare per sempre, quindi pronunciano la sentenza: l’uomo che era cieco e che ora vede sia cacciato dalla comunità degli osservanti, destino al quale si vorrebbe condannare tutti quelli che riconoscono Gesù quale Messia!
E’ una vicenda di duemila anni fa, ma sembra un fatto di cronaca che ogni giorno segna la nostra stanca umanità, inquinata dall’ingiustizia, segnata dall’indifferenza, minata nella speranza. E’ il motivo per cui i cristiani non devono aver paura nonostante l’angoscia per un futuro incerto e un presente di disagi, dolore e morte che genera pervadenti timori, rimarcati dalla mancanza al nostro fianco di una figura capace di rassicurarci e, prendendoci per mano, farci vedere la luce oltre il tunnel. Ci sentiamo dei vasi di creta condannati a condividere le briciole con chi ha una corazza di acciaio nella corsa per consumare quel poco o quel tanto che l’esistenza riserva. Molti propongono ricette contrastanti, rivali e non convergenti; allora non basta il coraggio, occorre riguadagnare fiducia e scegliere la vera via che, proclamando la verità, ci fa approdare a una nuova e liberante vita, trasformare le speranze in un inno alla calda bellezza di un incontro di esaltante reciprocità. Via, verità, vita, tre parole che non possono essere solo pronunciate, ma vanno vissute considerando inseparabili i concetti che evocano, efficace antidoto all’angoscia che genera paura.