Probabilmente ripeto concetti già espressi altre volte. Ma sento il bisogno di farlo, perché avverto forte la necessità della mia identità alla vigilia della consueta vacanza nella mia terra di infanzia. Tempo una settimana e respirerò profumi, gusterò sapori e incontrerò volti sorridenti di coinvolgente simpatia. Un habitat umano e fisico/geografico, topografico e, naturalmente, storico, che aziona ricordi e scatena emozioni.
È tempo di vacanza, dunque! C’è chi cerca refrigerio al mare, chi riposo in montagna, chi l’impegno di cultura nelle città d’arte. Tanti vanno all’estero. La maggior parte resta in Italia. Molti riscoprono la campagna in accoglienti agriturismi. Io, come dicevo, parte delle mie vacanze le consumo nella coinvolgente familiarità del paese d’infanzia, nel cuore del Cilento, che sa di Grecia.
La mia è terra di miti e di misteri, di storia e poesia. I miti sanno di terra e di mare. I misteri sono sigillati nel cuore delle grotte e, spesso, nelle notti illuni fuoriescono in una con il vento, che rantola rancoroso nel ventre della terra prima di impennarsi a cavalcata rabbiosa dalle faggete dei monti alle falesie del mare, sibilando tra forre e calanchi.
La storia è scritta nelle pagine ossificate di un territorio con i borghi adagiati pigramente nelle rade paciose, sui luminosi crinali delle colline, nei fondovalle umbratili, nelle brevi pianure ubertose, sui cocuzzoli dei monti a volo d’abisso. La poesia alita con la brezza carica di profumi a trasmigrazione-carezza di castelli e campanili, chiese e conventi, palazzi gentilizi ed umili dimore. Qui si celebra da sempre, in perenne (ri)creazione di storia/e, il mito primigenio della vita nel matrimonio prolifico di terra e mare. Il mare, nei giorni di bonaccia, bacia la battigia a dichiarazione d’amore. Quando si imbufalisce, nella libecciata, furoreggia sulla rena sabbiosa, schiaffeggia gli scogli e ricama garofani d’argento ed ingravida le grotte con la forza possente della passione. Il mare è “pelagos” sconfinato, immenso, che contiene e costringe in sé tutte le terre, ma anche “pontos”, che unisce/divide. Ne è dio nerboruto, barbuto e capriccioso Poseidone, che lo sconvolge e placa a colpi di tridente.
Ne subì il fascino della scoperta e del pericolo Ulisse, che gabbò Leucosia, sirena suicida perché incapace di sedurre, con la malia del canto, l’Eroe pellegrino. Ne fu vittima Palinuro, stremato d’amore e di stanchezza all’inutile inseguimento, nel fulgore del plenilunio sul mare, di Camerota, ninfa tanto bella quanto perfida di cuore. Lo attraversò indenne Giasone con il prezioso carico del vello d’oro e con l’incubo della persecuzione/vendetta di Medea. Vi tracciarono rotte sicure i nostri Padri Geci, portandosi dietro il sacro pantheon di eroi e dei: Hera pronuba di fecondità, Dioniso a perpetuare genio e sregolatezza negli e con gli umori della vite, Minerva ad eternare “logos” da sapienza per quella nascita ardita dal cranio del Padre Giove, con in dote il dono dell’ulivo con l’oro fluido del frutto a condire alimenti, imbellettar matrone ed oleare muscoli di atleti, Apollo a codificare bellezza nell’armonia delle forme. E nacque Poseidonia/Paestum con il miracolo dei templi dorici a rifrangere ambra nei timpani maestosi e nelle scanalature delle colonne nella gloria del sole. E il dio dell’acqua esalta la fluidità proteica delle rappresentazioni del divino: ed il miracolo della vita si perpetua, così, nei fiumi e negli specchi lacustri, nelle dolci sorgenti e nei torrenti impetuosi, che percorrono, innervano e fecondano la Grande Madre. Il Sele, il Calore, Capodifiume, il Solofrone, nel territorio della kora pestana, e, più giù, l’Alento, il Lambro, il Mingardo, il Bussento riannodano i fili della memoria e della vita tra mare e terra, tra le praterie di poseidonia e dei cespi di corallo, che occhieggiano colorati dai fondali, ed il verde dei lecceti e dei faggeti, che sfidano venti e tempeste sul Vesalo e sul Cervati, sul Gelbison e sull’Antilia, sullo Stella e sul Bulgheria, e con i fondovalle dove scivolano in dolce pendio castagneti, vigneti, uliveti, ficheti e la gamma variopinta dei frutteti di un’agricoltura di sussistenza. Ne gusterò i sapori e ne respirerò i profumi e riscoprirò i piatti della cucina povera: “la caponata”, che gli esperti gastronomi fanno risalire agli antichi romani, che attribuirono a quel pane ammollito in acqua e condito con olio, sale ed aglio, spesso arricchito da ortaggi tagliuzzati, il nome dell’osteria e/o dell’ostessa “caupona”, e ne inventò la ricetta a veloce piatto di viandanti squattrinati. I miei contadini cilentani la chiamano molto più semplicemente “acqua sale”. Così come non mi farò mancare “la ciambotta”, il cui nome ha una musicalità intrigante. La preparava la nonna con pazienza e abilità proprio di questi tempi, quando la bella stagione esplodeva nel caleidoscopio dei frutti dell’orto: peperoni, melanzane, pomodori, zucchine, cipolle, fagioli al palo. Riscoprirò ed esalterò, così, la mia identità cilentana nel segno della cultura magnogreca nel nome di Poseidonia/Paestum ma anche nel rispetto delle tradizioni della civiltà contadina.