L’ottimismo della Salvezza suggerisce a papa Francesco d’indirizzare al mondo intero la sua terza esortazione apostolica Gaudete et esultate (GE). Perché i cristiani dovrebbero assumere questo atteggiamento? Il documento è un invito alla santità nel mondo contemporaneo, un messaggio circa il significato della vita cristiana, un cercare e trovare Dio in tutte le cose. Come il poverello di Assisi, il pontefice intende riformare la Chiesa ponendo al centro Dio (GE 1). Nell’orientare i cattolici, egli non sceglie di elaborare trattati con minuziose definizioni e critiche distinzioni; con semplicità si rivolge ai fedeli per invitarli a riflettere sulla chiamata alla santità incarnata nell’attuale contesto (GE 2), desiderio la cui realizzazione è affidata al discernimento di ciascuno di noi.
L’esortazione, divisa in cinque capitoli, pone particolare attenzione a due sottili nemici della santità pronti ad esaltare forme elitarie, intellettualistiche o volontaristiche. A questa prospettiva, che ha attraversato tutta la storia della Chiesa, Francesco oppone le beatitudini evangeliche, unico positivo modello alla luce del Maestro, non soggetto a discutibili ideologie religiose. Secondo il pontefice, la pratica delle otto beatitudini consolida la pazienza, esalta la mitezza, dona umorismo, determina scelte audaci e riscalda il fervore dell’amore in una vita comunitaria ravvivata dalla preghiera costante, elementi che conferiscono ottimismo sull’esito del combattimento contro il male grazie a una costante vigilanza favorita da un dinamico discernimento.
Il documento, di agevole lettura e radicato su alcune fonti remote care alla riflessione pastorale di Bergoglio, intende rispondere alle domande: che cos’è la santità? In quali contesti viverla? Come? E’ possibile definirla?
Al centro della riflessione è la “classe media della santità”, perifrasi che va spiegata per prevenire probabili reazioni negative in chi non pone attenzione o non conosce cosa Francesco intenda per popolo di Dio. Egli ha sempre riscontrato in esso la santità quotidiana, quella paziente di “una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta”. Da questa premessa deriva la definizione “classe media della santità”, quella della porta accanto, di chi vive vicino a noi ed è un riflesso della presenza di Dio (GE 7). La si riscontra nella vita ordinaria di persone concrete, non in modelli astratti o sovrumani; è la santità definita dalla Lumen gentium al capitolo quinto quando si descrive la vocazione universale non riservata a vite perfette e senza errori (GE 22), ma a individui che, “anche in mezzo a imperfezioni e cadute, hanno continuato ad andare avanti e sono piaciute al Signore” (GE 3). E’ una santità che non si vive in solitudine, ma in mezzo al popolo (GE 6) tra una moltitudine di testimoni pronti a spronarci per continuare a camminare verso la meta (GE 3), tema già esplicitato in Evangelii gaudium (n. 87). Questa esperienza di popolo include anche chi ci ha preceduti nella speranza, chi ha vissuto e sopportato le contrarietà della vita tramandando non solo una dottrina, ma innanzitutto fornendo una testimonianza.
Il papa sollecita la santità personale, non l’imitazione di modelli astratti, quella ordinaria di Teresa di Lisieux che indica la sua piccola via verso Dio e così realizza la sua missione sulla terra (GE 19). Francesco lo aveva già sottolineato in Evangelii gaudium (n. 273). E’ la santità che Dio vuole praticata da ciascuno in maniera differente perciò diventa essenziale saper discernere la propria strada (GE 11) con una esperienza graduale che si concretizza nell’insieme della vita e non si sofferma all’analisi puntigliosa di singoli atti, modo di procedere che la trasforma in contabilità di azioni virtuose. Invece, dai contrasti tra luci e ombre dell’esistenza emerge il mistero di una persona capace di far riflettere in sé Gesù Cristo (GE 23). Perciò, il santo non è un superuomo, ma una persona calata in un contesto specifico, impegnato a migliorare in modo progressivo la propria vita rispettando una specifica modalità storica (GE 50). Lo si può trovare, quindi, anche fuori della Chiesa Cattolica e in ambiti molto differenti se a segnalarne la presenza è lo Spirito (GE 9). A queste condizioni noi non possiamo “negarlo con le nostre presunte certezze” (GE 42), anzi – come si legge con frequenza in Amoris laetitia (nn. 112, 177, 261, 265, 300, 302, 310) – occorre evitare l’atteggiamento di chi, pronto al giudizio di condanna, presume di essere il controllore della vita altrui.
Nemici della santità sono il neo-gnosticismo e il neo-pelagianesimo. Il primo è una deriva intellettuale che accompagna da sempre il cristianesimo e per la quale solo chi è capace di comprendere la profondità di una dottrina è un vero credente (GE 37). Una religione “al servizio delle proprie elucubrazioni psicologiche e mentali” (GE 40) dimentica che la santità ha a che fare con la carne che genera domande, dubbi, interrogativi (GE 44). Il pelagianesimo esalta lo sforzo personale ritenendo la santità frutto della volontà e non della grazia; concretamente si manifesta con «l’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa» (GE 57). Il risultato è un cristianesimo condizionato da norme e precetti che nascondono la sua affascinante semplicità (GE 58) trasformandosi in sostanziale schiavitù del sabato sull’uomo contro la quale Gesù ha sempre combattuto (GE 59).
L’uomo può essere un buon cristiano rifacendosi concretamente alle Beatitudini (GE 63), di fatto una contemplazione della vita di Gesù con parole semplici e pratiche, valide per tutti. Francesco cita il testo evangelico per descrivere una santità sine glossa (GE 97), non spiritualità astratta o che si risolve nella dimensione mondana. Nel capitolo quarto egli delinea le caratteristiche della santità nel mondo contemporaneo (GE 111) che si segnala per “l’ansietà nervosa e violenta che ci disperde e debilita; la negatività e la tristezza; l’accidia comoda, consumista ed egoista, l’individualismo e tante forme di falsa spiritualità senza incontro con Dio e che dominano nel mercato religioso attuale” (GE 110). Per rianimare la speranza il cristiano deve rispondere con la capacità di sopportazione, pazienza e mitezza, pronto a “lottare e stare in guardia davanti alle nostre inclinazioni aggressive ed egocentriche per non permettere che mettano radici” (GE 114). Rispetto ad una consolidata credenza che la santità si guadagna praticando una dura e costante penitenza, Francesco invita invece alla gioia e ad una sana pratica dell’umorismo per superare ogni atteggiamento “inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia”; infatti, “il malumore non è un segno di santità” (GE 126). Al contrario, il santo “Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza” (GE 122). Su questa base si fonda la predisposizione all’audacia e al fervore per superare paure determinate da ”individualismo, spiritualismo, chiusura in piccoli mondi, dipendenza, sistemazione, ripetizione di schemi prefissati, dogmatismo, nostalgia, pessimismo, rifugio nelle norme” (GE 134), perché il santo non è un burocrate o un funzionario, ma una persona appassionata che non vive nella mediocrità tranquilla e anestetizzante (GE 138), invece spiazza e sorprende convinto che Dio è sempre novità (GE 135) e invita a ripartire verso periferie bisognose di aiuto e frontiere che attendono di essere superate. Ciò è possibile se si è coinvolti in un cammino comunitario (GE 141) che aiuta a vincere la “tendenza all’individualismo consumista che finisce per isolarci nella ricerca del benessere appartato dagli altri” (GE 146). Realizzare ciò diventa possibile se si sente il bisogno di comunicare con Dio nella contemplazione del Signore (GE 147) che rivela la potenza del volto di Cristo (GE 151).
Vivere questo tipo di santità non è facile perché implica una continua lotta e la costante predisposizione a praticare il discernimento per disporre della forza e del coraggio necessari per resistere alle tentazioni (GE 158), pronti a lottare con le lampade accese contro la mentalità mondana, che intontisce per rendere mediocri, contro la propria fragilità e le proprie inclinazioni per prevenire stordimenti o torpori (GE 164) che causano “una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito” (GE 165). Il dono del discernimento aiuta in questa battaglia spirituale (GE 166); senza “possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercè delle tendenze del momento” (GE 167), invece il discernimento permette “di riconoscere i tempi di Dio e la sua grazia, per non sprecare le ispirazioni del Signore, per non lasciar cadere il suo invito a crescere” (GE 169).