Comprendere lo sviluppo della dimensione politica di una società, come universalità, e dunque quali siano i suoi effetti sulla modernizzazione del pensiero culturale, qualora questo abbia interesse a manifestarsi e modificarsi nei contesti strutturali delle istituzioni, così come in quelle sociali, occorre ancor prima comprendere che il c.d. “cambiamento” è un processo e affinché questo possa generare la “differenza” è necessario applicarlo in tutte le cose, dal pensare all’agire.
Tuttavia anch’esso beneficia di una teoria scientifica, che di diritto rientra nella categoria dell’organizzazione, difatti trattasi di un contenitore settoriale e marginale così come radicale e adattivo. Pensiero questo già noto ai miei lettori in quanto facente parte di uno studio territoriale già pubblicato. Ma andiamo per ordine e grado cercando, ne è vero, di sfatare quel desiderio di cambiamento che tutti noi professiamo, cerchiamo, domandiamo, ma alla fine da buoni cittadini decliniamo verso una disponibilità ad abbandonare il nuovo, anzi a non cercarlo affatto e a non farlo emergere, per accogliere ancora una volta metodi, argomenti e proposte che nel tempo hanno già abbondantemente dato. Chiaro è che la propulsione per un cambiamento devono e possono darla soltanto gli elettori, ma ciò ad elezioni in atto, ovvero a seconda della propria scelta indirizzare il personale desiderio di cambiamento preferendo una politica territoriale fresca, nuova, che non abbia il sapore del già visto e del già vissuto.
Pur vero è che nei secoli le genti di ogni angolo del mondo come facilmente propensano verso una idea così altrettanto semplicemente la denigrano. Sì, solo gli stolti non cambiano idea, ma da qui a rigenerare fisionomie politiche – anche se dapprima avversate – proponendole come nuove e portatrici di innovazioni, la distanza è ben lunga. È una società la nostra che non spreca nulla nel voler apparire ad ogni costo utilizzatrice, se non in alcuni casi produttrice, di paradossi.
Ebbene Capaccio Paestum lo si voglia o no è, politicamente, una città conservatrice: gira e rigira alla fine si preferisce sempre il passato. Forse su alcuni aspetti non è del tutto sbagliato questo modo di fare, pensare e sostenere, come si dice: a male estremi, estremi rimedi. A volte funziona, certe altre no. Funziona quando l’esperienza di chi si ripropone gioca forza sulle problematiche amministrative e sulla gestione territoriale, del come affrontarle, della conoscenza e della volontà di dar seguito a quei progetti i quali o per scadenza di mandato oppure per mancata fiducia non sono stati ultimati nella loro completezza. Funziona meno, anzi non opera per nulla bene quando la stessa conoscenza esperienziale sulla politica locale si confonde con una errata scelta della squadra amministrativa. Siamo un po’ tutti conservatori allora? Chissà forse in fondo in fondo sì, lo siamo; anche perché probabilmente quel tanto acclamato cambiamento, del quale spesso non sappiamo neppure se ci utile oppure no, se, dove e quando utilizzarlo, in sostanza un po’ ci spaventa e in alcuni casi ci invoglierebbe a cambiare totalmente il nostro intimo pensare, adattandolo molto a ciò che ben si coniuga nel rispetto e nella integrità di una politica territoriale generatrice di benessere e di serenità tra gli stessi cittadini.