Il pronunciar contrario per la città dei Templi, che non sia stata storia intellettuale, è come negar vita alla filosofia stessa e al suo arcano vissuto. Ebbene sì, quando i Sofisti giunsero ad Atene, per lì erigere la loro dimora al fine di indottrinare le relazioni della virtù in tutte le cose, il senso e i nessi di questa dote, la quale diventa addirittura un’arte se la si possiede, non poterono non essere trasportate dal vento della conoscenza in altri luoghi e siti del mondo antico, che alla cultura greca si richiamavano. L’insieme delle qualità umane che garantiscono il successo politico fu dunque estratto da una transizione di dialogo che poneva la seguente domanda: “come diventar virtuosi”?
L’assolvere bene il proprio compito e definirlo completamente conciliabile con l’Areté saranno come sappiamo i tempi di Platone, avvicinando il senso verso quello più moderno di virtù, esaltando così l’eccellenza umana. È su tale preziosa condizione che molti principi platonici confermano la loro simbiosi con l’attività politica e cosa più straordinaria è che questa, nella modernità comportamentale, dovrebbe intrecciarsi e coniugarsi con la moralità. Forse non proprio come la intendeva il dialogo tra Menone e Platone, ovvero affermare i propri desideri e avere il potere di realizzarli, piuttosto accrescendone la coscienza del valore, nell’edificazione dell’attività politica stessa. Anche sull’antica città di Paestum soffiò la conoscenza della virtù magistrale, che avrebbe poi interessato gli argomenti politici e sociali di un’Agorà fortemente rispettosa verso le dialettiche filosofiche greche. La politica ha bisogno di virtù? Certamente sì; ma ancor prima è la democrazia che dovrebbe riconoscersi virtuosa maggiormente nell’espansione del suo stesso concetto e distribuire, ne è vero, la rispettabilità dell’altrui libertà, avendo cura di fermarsi lì dove i confini della propria sovranità di espressione impongono onestà, etica e circospezione nel proferire denigrazioni o avversare a cose, prima che queste abbiano avuto luogo in fatti e storie appurate.
E forse qui i Greci ben seppero distinguere e manifestare l’immagine stessa dell’eroismo e della politica, nell’erigere nella città di Paestum prima la Heroon e poi la Ekklesiasteron, quasi a dire che il culto tombale e le questioni politiche andavano discusse nelle giuste sedi. E la demos? Cosa toccava sapere sulle questioni politiche al popolo se queste venivano introdotte e trattate in ambienti non pubblici? In realtà, almeno per chi la democrazia l’ha creata, la cittadinanza era molto intrinseca al concetto di attività politica più di quanto si possa immaginare.
Ma nell’antica Grecia vi era anche la pratica della “paressia” quel diritto e dovere di dire la verità che a un certo punto si arroga la presunzione di potersi alterare nella sua forma e nella sua sostanza. Ed è qui che diventa pericolosa per la stessa democrazia, e già, se ognuno può dire la sua personale opinione concertandola con il proprio intimo pensiero e non ha rispetto di quello altrui, che gode della stessa libertà, non solo invade la dignità del proprio simile, ma sfocia nella dialettica di una titolarità presuntuosa e arrogante. Siamo confinati a noi stessi e questo è sbagliato, è improduttivo, è dissociativo, è difforme alla natura stessa dell’individuo nel ritenersi parte essenziale della società che vive e che lo circonda. A Capaccio Paestum è proprio l’informe paressia che pare abbia incrementato la sostanza del “tutto ciò che vien detto è verità” adattandola al principio del “quel che io affermo è vero e quel che tu dici è falso”. Allora come e attraverso quali strumenti etici sarà mai possibile ottenere il diritto e il dovere di dire la verità senza che questa venga alterata, distorta e modellata secondo il personale scopo? Qui la virtù potrebbe farla da padrona, se solo avessimo conoscenza e memoria della grande storia, per questa città che nei secoli non ha lasciato ai posteri solo le bellezze strutturali di imponenti templi, ma ha stratificato anche epoche di scuola magistrale e filosofica, probabilmente con l’auspicio che, un giorno, i discendenti ne potessero giovare.
Avremmo dovuto quindi assimilare saperi e doti di una antica erudizione e farne strumento virtuoso per la politica e la collettività; invece ci siamo persi nei meandri della superficialità e della curatela dell’Io, dell’accentrismo e del protagonismo. Ma in realtà, per dirla con il polemico scritto di Nietzshe sulla genealogia morale, “Siamo ignoti a noi medesimi. Non abbiamo mai cercato noi stessi, come potrebbe mai accadere, un bel giorno, di trovarsi?” Figurarsi ritrovare gli antichi saggi con i loro insegnamenti. Di virtù ne abbiamo tanta, in molte cose e azioni che quotidianamente facciamo, ciò è provato, ma spesso molto spesso l’allontaniamo da noi ogni qualvolta abbiamo a che fare con la politica. Lì, proprio su quell’attività dove questa dote umana potrebbe generare il bello, il grande, il sostanziale per la collettività ed esprimere tutta la sua positività. La virtù è quell’edificio che innalzandosi nell’alto della bontà dell’animo pratica, esercita e ama il pregio dell’onestà intellettuale, anch’essa una virtù, ma della specie più pregiata.
Quali cose abbiamo dunque ereditato dagli insegnamenti dei nostri padri storici, quale legame abbiamo con la storia educativa e formativa pervenutaci dalla genesi della politica, di cui questa città ne può vantare memoria? Nessuna, qualcuna o per essere sinceri diremo che siamo ben distanti dall’antico sapere sulla politica, così come siamo lontani dalla sua modernità? Il nostro errore è che quando argomentiamo di un qualcosa che ci sembra facile praticare, come ad esempio fare politica, ci sentiamo tutti conoscitori e navigati propugnatori delle nostre azioni e idee. Che queste siano benefiche oppure no, pretendiamo ad ogni costo il consenso altrui, ma quando l’altrui manifesta il proprio parere, non conforme al tuo, ecco che ci trasformiamo in feroci avversari per non dire nemici. È quell’insieme di qualità umane, che probabilmente abbiamo e non ci accorgiamo di possedere, che potrebbero senza dubbio garantire il successo politico di un territorio, ma anche personale nell’espleto delle funzioni politiche. Allora si che si crearà la vera Agorà dove ognuno potrà distinguersi con la sua Aretè, ma nel significato originale, ovvero la capacità di assolvere bene qualsiasi compito. Sia dunque il futuro di questa città edificato sulla virtù politica del singolo e sulla democrazia della collettività, sulla stratificazione dei concetti etici e sulla convinzione che il niente produce il nulla, mentre anche una sola virtù può trasformarsi nel gigante dell’eccellenza sia funzionale agli aspetti amministrativi del territorio, che intima alla predisposizione della morale e del rispetto altrui.