di Francesca Blasi
Intervistare un artista non è mai impresa semplice perché gli artisti, il più delle volte, parlano un linguaggio fatto di concetti astratti, declinano un alfabeto il cui codice interpretativo è sconosciuto ai più. Questo vale anche per Riccardo Dalisi. Dietro il sorriso aperto e sincero e lo sguardo bonario di chi assapora il ritmo lento della vita, si cela un uomo istrionico che si racconta utilizzando le sue opere. Ogni domanda si trasforma in una incognita dove la risposta è solo l’inizio di un percorso fatto di immagini oniriche, tragitti ideali, ambivalenti realtà. Ad ogni punto interrogativo raramente corrisponde una risposta univoca e chiara. Sempre un rimando, un sospeso, un detto/non detto che lascia intendere qualcosa ma anche altro. Ad un tratto le parole si arenano, monche e svogliate. Lì, nel momento esatto in cui il suono si addormenta, inizia la vera intervista. Le parole lasciano il posto alla gestualità, alla creatività materica che si appropria dello spazio circostante. Finalmente entrambi – intervistato ed intervistatore – parlano attraverso il medesimo sentire e si intendono. Riccardo Dalisi utilizza la sua arte per descrivere il suo essere e lo fa con una naturalezza disarmante.
In pochissime ore l’architetto-artista, lucano di origine e napoletano di adozione, ha creato una storia fatta di linee, solchi, intrecci di colore. La mostra del maestro rientra nel progetto “45 Ceramiche da 45 cm”, ideato dalla storica Fornace Falcone di Montecorvino Rovella e giunto alla sua ottava edizione.
«Volete sentire un po’ di suono?»: come un bambino felice alla prima gita al mare, Dalisi si rivolge ai presenti desideroso di far ascoltare “una musica”. Si tratta del suono dello scalpello a contatto con il piatto di ceramica nel momento in cui l’artista stesso incide la sua firma. In poco più di qualche ora, il maestro ha terminato quarantacinque pezzi unici realizzando suggestivi esperimenti materici, con alchemici incastri di sabbia, ferro, pezzi di rame, smalti e pozzanghere di vetri. L’artista, nel suo incessante lavoro, è “alla ricerca costante di se stesso”. Sempre pronto alla sfida e alla scoperta. «Prediligo – spiega Dalisi – quello che non ho ancora realizzato, quello che non è nelle mie coordinate. Mi incuriosisce e mi appassiona l’imprevedibilità. L’arte non è prevedibile, l’estro non si può controllare. C’è sempre – aggiunge – qualcosa che sfugge al raziocinio. L’arte è sempre tesa verso l’ignoto, alla volta di una dimensione inesplorata. Quando sto ideando un’opera, il punto di partenza è l’intuizione che seguo incondizionatamente, animato da un sentimento che mi spinge a percorrere una determinata strada piuttosto che un’altra».
Riccardo Dalisi è l’unico artista italiano ad aver ricevuto per ben due volte il Premio Compasso d’Oro ADI, il più antico ma soprattutto il più autorevole premio mondiale di design, nato nel 1954 da un’idea di Gio Ponti allo scopo di mettere in evidenza il valore e la qualità dei prodotti del design italiano allora ai suoi albori. E’ stato insignito del premio “Compasso d’Oro” nel 1981 grazie all’oggetto più conosciuto e rappresentativo della sua produzione, ovvero la Caffettiera Napoletana per Alessi. Con lui la “caffettiera si anima”, si è fatta produzione fantastica, assumendo forme e connotazioni diverse e impensabili. Il secondo “Compasso d’Oro”, invece, lo riceve in quanto “architetto, designer, artista, in prima linea sulle tematiche sociali, che ha dedicato la sua attività anche a favore di coloro che vivono in situazioni di profondo disagio».
«Mi ispirano – ci tiene a sottolineare Dalisi – i luoghi emarginati, quelli nei quali si annida la sofferenza, come le carceri o quartieri di solitudine e degrado come il difficile Rione Traiano. In quei luoghi si respira qualcosa di particolare. Mi piace molto, ad esempio, interagire con i bambini. Lavoro volentieri con i bambini di Scampia e i detenuti del carcere minorile di Nisida. Attraverso gli occhi dei più piccoli si osserva un mondo genuino, immediato, senza filtri. L’arte può essere la risposta alla violenza, all’incomunicabilità sociale, alla paura di risollevarsi. Sono convinto che l’arte serva a farti superare le difficoltà, a salvarti dal baratro e a riportarti alla vita».