Tommaso alza la voce per prendere la parola, determinando la reazione costernata dei più. Egli fissa la Maddalena con uno sguardo inquisitorio, che promette poco di buono, e afferma: ”Gesù si è posto in contrasto con una vasta porzione dell’opinione del suo popolo. Lo avevo messo più volte in guardia ricordandogli che quest’antitesi lo avrebbe portato a un brutto scontro, soprattutto per iniziativa delle personalità più in vista. Infatti, è stato arrestato dagli addetti alla sicurezza del Tempio e dai guardiani dei sommi sacerdoti, dopo che questi ultimi avevano provveduto ad avvertire i romani. Gesù è stato consegnato a Pilato solo quando viene approntata una credibile accusa d’individuo politicamente pericoloso. Sicure delle loro affermazioni, le autorità del Sinedrio hanno respinto con ostinazione i tentativi di Pilato di liberarlo; tuttavia è condannato solo dopo l’interrogatorio del procuratore. Con certezza, la sentenza è eseguita da soldati romani.”
Detto ciò, saluta i commensali, e si avvicina all’uscita ringraziando Giovanna per l’ospitalità.
Gli chiedono: ”Dove sei diretto così in fretta?”
“Ho l’intenzione di andare a Betania da Lazzaro, dove le sorelle fanno compagnia alla Madre di Gesù, alla quale provvede Giacomo il minore”.
“Posso venire con voi?”, aggiunge con voce dolce, ma decisa, la Maddalena.
“Perché no? Maria.”, risponde Giovanni, che anticipa il prevedibile diniego di Tommaso.
Battuto sul tempo, Didimo non può pronunziare, come desiderava, un diniego, ma precisa: “A condizione che proceda a debita distanza e, soprattutto, non parli delle sue visioni. Ne ho avuto abbastanza, specie del predicozzo uscitole di bocca qualche minuto fa. Ormai non la ferma più nessuno: ha la pretesa di essere l’apostola! Non vedo l’ora di essere presente a un suo incontro con Pietro. Già immagino gli urli di quella testa calda. Anche se mi pare che la signora qui presente – e sillaba il termine signora con un ammiccante timbro della voce – di recente sia riuscita a rabbonire anche lui. Che Adonai vi perdoni!”
Intanto a Betania per consolarla e mantenerla occupata le due sorelle sollecitano Maria a raccontare della sua vita e dell’esperienza di madre con Gesù. Marta, approfittando della familiarità di vecchia data, le chiede di narrare la sua esperienza di bambina.
Maria abbozza un sorriso e poi inizia dando la sensazione che le faccia piacere comunicare alle amiche di Gesù la sua storia.
“Di ritorno dal Tempio, dove mi avevano mandato perché servissi Adonai tra le vergini, due pastori nel deserto mi accolsero nella loro tenda come una viandante senza fare troppe domande perché abituati al silenzio e alla solitudine. Decisi perciò di accettare il loro aiuto. Lì, seduta, vedevo il fuoco farsi rabbioso per il vento e divorare la legna come paglia. Mi sentivo in compagnia degli angeli e mi dimenticai di essere una donna, sgradita preoccupazione per tanti uomini perché solo una bocca da sfamare, esaltandomi al pensiero di tutto ciò che riguarda la Legge. Una luce mi guidava nel viaggio interiore per comprendere ogni comportamento umano, abbracciare ogni aspetto della vita, ogni azione che deve essere guidata da questo codice. Stavo facendo un’esperienza che dava corpo a tutti i significati del mio nome: Miriam. Mi sentivo immersa in un mare amaro, goccia d’acqua, ma anche di mirra. A Nazaret, Giuseppe aveva chiesto ai miei genitori il permesso di parlare con me. Egli mi riferì che, al primo incontro, quando pronunziai il suo nome guardandolo dritto negli occhi, gli parve di sentire il rumore del vento e lui spegnersi e non percepire più nulla, che fosse fame, freddo, caldo, dolore. Le parole gli sembravano vuote, mentre riemergevano, prima deboli, poi sempre più luminosi, i contorni del mio viso. Aveva scoperto che cosa significa l’amore così come mi ero abituata ad immaginarlo mentre leggevo il Libro dei Cantici.”
“Che bella descrizione dell’amore di un uomo”. Commenta la sorella minore di Lazzaro. Per favore continua il tuo racconto per me così edificante.”
“In quelle settimane avevo a volte la sensazione che qualcuno mi chiamasse, che pronunciasse il mio nome chiedendomi di alzarmi e partire. Fatti pochi passi, mi pareva che la voce arrivasse da ogni direzione e da nessuna in particolare per cui mi fermavo, ma intanto non cessavo di udirmi chiamare: Maria, Maria, Maria. Era un’armonia che scandiva le lettere del mio nome come le rime di un salmo. Non facevo che ascoltare quella voce che mi faceva palpitare il cuore. La mia anima cercava di udire suoni che non tornavano, finché un mattino Gabriele riprese a parlare. Ricordo bene il timbro acuto come di donna che canta, voce melodiosa, ma anche autorevole di uomo, dalla quale trasuda la saggezza di chi, premuroso, ammaestra. Intanto, avevo la sensazione di essere circondata da un silenzio irreale. Fui distolta da quel rapimento proprio da Giuseppe, il quale aveva intonato per me una canzone. Rammento le parole: mi esaltava come torre in mezzo alla vigna, argine e roccia, viso angelico dagli occhi neri e luccicanti. Ero, diceva, la sua colomba. Nel pronunziare queste parole mi sorrideva pieno di gratitudine.”
“Immagino le attenzioni di chi ti frequentava”. Esclama Marta.
“Invece – continua la Madre di Gesù – cominciai a sentire una strana condizione di solitudine determinata dalla lontananza di Giuseppe partito per Sefforis, la città dove aveva trovato lavoro. Ora era ancora più amato; per quel che provavo per lui avrei voluto comunicargli tutta la mia esperienza, a partire da come era avvenuto l’annunzio. Nell’orto di casa mi aveva cercato il messo di Adonai per impastare un figlio nel mio grembo: terra buona per salvare l’umanità.”
“Dopo la risposta positiva alla volontà di Dio, sono sicura che la tensione interiore era aumentata nel tuo animo.” Asserisce Marta.
“Alla notizia delle condizioni di Elisabetta mi misi subito in viaggio per andarla a trovare, nonostante il tragitto non fosse dei migliori; infatti, dovevo attraversare sentieri impervi tra le colline della Galilea. Ma chi si preoccupava di ciò? La mia mente era concentrata su un solo pensiero. Mi sentivo la serva privilegiata del Signore e avevo bisogno di comunicarlo a qualcuno. Corsi da mia cugina spinta dalla carità verso di lei, bisognevole di aiuto, ma anche dal desiderio di farla partecipe del mistero che mi accompagnava da quel fatidico giorno quando pronunciai un sì che sentivo dentro di me con crescente evidenza. Inoltre avrei potuto osservare più da vicino, nell’abitazione di un sacerdote, le conseguenze della parola di Dio e riflettere sulla responsabilità che mi andavo assumendo verso la Torah. Il viaggio durò circa tre giorni. Nonostante la fatica dei tornanti fatti a piedi, delle ripide discese, dell’ansia per le incertezze della rotta e la paura di qualche brutto incontro, quelli furono giorni di grazia. Libera dalla ritualità quotidiana dei lavori domestici e dalla frequentazione delle stesse persone con le quali si è portati a parlare delle cose di ogni giorno, cedendo sovente alla banalità di qualche pettegolezzo accentuato dalla curiosità maliziosa che si legge negli occhi di amiche e conoscenti, nella solitudine interiore del mio io ebbi l’opportunità di pensare a ciò che mi era capitato. La meditazione pose un certo freno al tumulto delle emozioni, al guazzabuglio di sentimenti che albergavano nel mio cuore, dove costantemente echeggiavano le insolite parole ascoltate qualche settimana prima. Proprio durante quei giorni di viaggio ho acquisito l’abitudine di parlare mentalmente col figlio che portavo in grembo. I suoi palpiti, i suoi movimenti, il fatto di sentirlo crescere in me unificavano tutte le mie forze interiori. Mentre gli manifestavo la mia premurosa devozione, andavo accentuando la mia adorazione per il Benedetto d’Israele.”
“Come si comportarono coloro che nella carovana si accompagnavano a te? Immagino, osservavano con fare inquisitorio”. Le chiesero le due sorelle.
“Alcuni della compagnia ritenevano che fossi una spigolatrice, uno dei tanti anawhim. Povera donna! Senza marito o padrone, che si nutriva raccogliendo spighe che altri per carità lasciavano sul terreno. Ritenevano che vivessi del superfluo che la generosità dei più fortunati mi metteva a disposizione. Ricordo che una donna si chinò verso di me per porgermi quello che aveva in mano, poi tornò col suo gruppo nella carovana. Questa esperienza mi colpì. Quanti poveri avevo visto al Tempio. Lì ho imparato a vuotare la mia borsa davanti a loro senza desiderare quel che possedevo in più, ma anche senza ricercare gratitudine. Come mi aveva insegnato il Rabbi, era semplicemente un atto di giustizia.”
“Prima di arrivare da Elisabetta che cosa facesti”. Domandò incalzante Marta.
“Ebbi occasione di fare un bagno di purificazione, un mikvè per rigenerarmi dalla fatica. Entrare nell’acqua mi diede la sensazione di ritornare nel grembo materno. Pensai perciò con maggiore intensità alla mia nuova condizione, al mio bambino annunciato da un angelo, inviato nel luogo più basso di questa terra, nella impura Galilea delle genti, formato nel punto più infimo del nostro popolo, nel grembo di una donna, anzi di una ragazza ancora senza marito, esposta certamente alle calunnie e, probabilmente, alle pietre dei benpensanti. Incominciai ad aver paura. Per farmi coraggio mi rivolsi al mio Yeshua: gli parlai, lo implorai, iniziai anche a pregarlo. Ma, rispetto alla condizione di serva fedele, dopo un po’ cominciò a prevalere in me quella di madre. Allora fui io a consolarlo dicendogli di non aver paura perché con lui ci sarei stata sempre io: lui ed io nello stesso fragile corpo, ma entrambi forti per la fiducia in Adonai. E poi, ricordo che un pensiero mi illuminò come un lampo in una notte senza luna: Yeshua sarà il perdono dell’Altissimo, di che dovevo temere?”
“Percepivi con crescente chiarezza il destino che si profilava davanti a te, figlia d‘Israele scelta per esaltarsi abbandonandosi al caldo amore materno?” Esclamò Maria, la sorella di Lazzaro.
“Per la verità tutto il giorno mi divertivo ad immaginare le fattezze di mio figlio e ciò faceva crescere in me l’impazienza di vederlo per poterlo abbracciare, malgrado la consapevolezza che mi avrebbe potuto causare problemi in famiglia, nel villaggio e col rabbino. Ma al mio bimbo era destinato il trono di Davide. Egli avrebbe riassunto in sé tutti i desideri sedimentatisi nella casa di Giacobbe durante i secoli. Mentre riflettevo sulle tradizioni del mio clan e dei familiari più vicini, cominciai a domandarmi se il regno di cui egli sarebbe stato l’iniziatore avrebbe fatto la fine di tanti altri, oppure avrebbe assunto caratteristiche del tutto diverse, come unica era la modalità con la quale Emanuele si era affacciato alla vita. Inoltre, che poteva significare un regno senza fine? Le parole che avevo percepito, sentito, ascoltato in quel momento meraviglioso di annunzio mi ritornavano spesso alla memoria: un figlio santo. Ma chi è santo? Secondo gli insegnamenti degli scribi e dei rabbini lo è solo il Benedetto d’Israele. La mia mente, immersa in un lampo di luce, non riusciva più a collegare parole, significati e immagini, mentre in me echeggiava l’azione dello Spirito che mi induceva a considerare il mio bambino Figlio dell’Altissimo.”