“Maria, Maria. Il pranzo è pronto. Vieni, tutti ti attendono”. A chiamarla è Giovanna di Cusa ed ella finalmente si scuote dal suo torpore meditativo ed entra nella sala da pranzo. Il vociare diffuso diventa un bisbiglio di curiosità. Tutti riconoscono in lei la portatrice di una novella che da speranza. Tutti, ad eccezione di Tommaso, al quale la vista della donna determina la perdita dell’appetito. E’ Giovanni a rompere l’imbarazzante silenzio. Chiede al gruppo: “Anche se è una rievocazione dolorosa, per nulla opportuna nel contesto di un pasto di amicizia, raccontateci del vostro viaggio di venerdì scorso dal Pretorio al Golgota”.
Le donne, timide ed imbarazzate, non osano parlare. Giovanni cerca di animarle riconoscendo che soltanto loro, donne di Galilea, hanno mostrano coraggio nonostante i rischi. Sollecitata da questo commento, Salome è la prima a prendere la parola: “Ci mantenevamo a distanza; da lontano abbiamo osservato i romani crocifiggerlo ponendolo di fronte alla città, in direzione del Tempio, dove il Maestro era solito recarsi”.
Le parole dell’amica infondono coraggio alla moglie di Zebedeo, che interviene: “La scelta del luogo, secondo i carnefici, doveva essere l’ultima provocazione per offendere gli zeloti; abbiamo notato che per Gesù si è trasformata in un’opportunità per mantenere gli occhi fissi in tensione di preghiera verso la Dimora. Ricordo che c’eravamo sistemate a trenta metri dal piccolo colle cercando di non dare nell’occhio, spettatrici apparentemente anonime, schiacciate dalla calca lungo il muro, tra la porta del giardino a sud e la torre ad angolo a nord; tutte cercavamo d’incrociare lo sguardo del Maestro”.
Sciolte da ogni titubanza e superata ogni timidezza, in coro le presenti continuano ad evocare quegli istanti: “Eravamo fisicamente lontane da Lui, ma vicinissime col nostro spirito. Sentivamo il nostro cuore andare oltre le nostre forze nel vedere rudi soldati appendere il nostro Gesù alla croce, la sua atroce agonia nel lottare per ore con la morte alla ricerca di un istante di tregua dal dolore per riprendere fiato. Dopo tanto strazio, lo vedemmo morire lanciando un ultimo grido”.
“Anche noi sperimentammo la nostra passione. Gelate dalla compassione, qualsiasi movimento per noi era diventato impossibile. Non potevamo chiamarlo o fargli cenni per attestare la nostra presenza come piccolo conforto per lui, non potevamo lamentarci o, peggio, piangere per non richiamare l’attenzione dei gruppi di curiosi a noi vicini. Per ore la nostra comunicazione con il Maestro, al quale non era mai mancata un’appropriata parola di conforto, di sostegno, di gioia, di speranza, si era ridotta allo sguardo, troppo poco per un attestato di riconoscente amicizia per l’uomo che ha saputo sempre compatire.”
A prendere la parola è Maria Maddalena e tra i commensali si nota un’accresciuta attenzione. Il racconto fatto il primo giorno della settimana e ciò che asserisce aver visto le assegnano un ruolo particolare: asserisce di aver visto il Maestro risorto.
“Mancava poco al sopraggiungere della sera quando fu accertata la morte di Gesù. Si poteva andare ai mercati ad acquistare il necessario per la sepoltura, ma il tempo era poco, mentre le cose da fare molte, soprattutto disporre di un sepolcro. Noi abbiamo notato un certo movimento attorno alla croce. Giuseppe d‘Arimatea, benestante proprietario terriero e membro del gruppo degli anziani, influente nel consiglio e noto a Pilato aveva vinto tutte le riserve e, superando qualsiasi remora, si era presentato a Pilato per chiedergli il corpo del Nazareno. Il procuratore si era meravigliato che questi fosse già morto, perciò aveva chiamato un centurione per chiedergli notizie del condannato. Ricevute assicurazioni, concesse al nostro amico il cadavere. Il rifiuto della sepoltura sarebbe stato una sorta di pena aggiuntiva. Di solito, per prevenire questo ulteriore scempio, i parenti del giustiziato sollecitano alle autorità la consegna della salma, grazia amministrativa che dipende dall’arbitrio del magistrato. Nel caso di Gesù la concessione risultava più difficile perché accusato di sommossa”.
Maria prorompe in lacrime al ricordo di quello che ha visto. Riprende il racconto Giovanna e riferisce che, senza temere alcuna contaminazione rituale, guidate dalla Maddalena le donne hanno aiutato dei volontari a togliere il corpo dalla Croce. Vedere schiodare quelle mani e quei piedi rinnovava la loro sofferenza. Un residuo di sangue impregnò le loro vesti e le loro mani ma, invece di provare ribrezzo, tutte hanno trasformato quella particolare sensazione nel calore di un ricordo personale che le lega ancor più al Maestro. Sentivano che, se non la possibilità di portare con loro una reliquia, avevano il privilegio di poter raccontare ai posteri un’esperienza che le rendeva uniche.
Con la voce rotta dal pianto, Maria Maddalena trova la forza di evocare quei momenti molto tristi: “Era proprio morto il nostro Maestro, capo reclinato, bocca semiaperta, occhi appena chiusi da un gesto amorevole, mentre Giuseppe porgeva il lenzuolo per farvi avvolgere il cadavere. A questo punto una voce imperiosa scacciò noi donne; erano i militi che il Sinedrio aveva sollecitato al procuratore perché accompagnassero i portatori fino alla tomba che avrebbero dovuto vigilare.”
“E’ esattamente quello che è avvenuto”, esclama Giovanni. “Le donne si sono dimenticate di aggiungere che i soldati non spezzarono le gambe al Maestro perché era già morto e non hanno citato la presenza di Nicodemo, che accompagnò Giuseppe d’Arimatea in quest’ultimo viaggio del corpo di Gesù. Giuseppe s’impegnò in questa faccenda non senza rischio personale, avrebbe potuto suscitare malintesi: come pio ebreo e membro del sinedrio era nella condizione di rivendicare il rispetto della legge mosaica circa i giustiziati, ma mettere a disposizione le sue sostanze per la sepoltura diveniva anche segno di un sentito legame di amicizia col crocefisso. Disponeva di personale sufficiente per evitare di contaminarsi e, quindi, prevenire il rischio di esclusione dall’ormai imminente pasto pasquale. La sua iniziativa merita la nostra più alta gratitudine. Infatti, se si fossero attivati gli abitanti di Gerusalemme o i loro capi, Gesù sarebbe stato gettato senza spesa alcuna nella fossa riservata ai malfattori, perché normalmente i giustiziati sono deposti in una anonima tomba comune a disposizione della corte di giustizia fuori della città per evitare di seppellire un empio accanto ad un giusto. Come vi è noto, viene rifiutata persino l’inumazione nel sepolcro di famiglia per paura di contaminazione; solo dopo un anno, a decomposizione avvenuta, i parenti vanno a raccogliere le ossa. Perciò, non va dimenticato il gesto di Giuseppe e con lui quello di Nicodemo. Questi portò con sé una mistura di mirra e d’aloe, quasi cento libbre. I loro servi avvolsero il corpo di Gesù in bende di lino con aromi, seguendo il rituale in uso presso di noi circa il modo di seppellire i morti.”
“Hai ragione, Giovanni”. Ripresero le donne presenti nella sala da pranzo. “Noi c’eravamo fermate alcuni istanti per non aver problemi con i militari, perciò non abbiamo visto questa parte del rito, anzi non sapevamo che fosse stato praticato; per questo motivo due giorni dopo abbiamo deciso di ritornare sul luogo della sepoltura. Senza dare nell’occhio, abbiamo seguito il triste corteo. La Maddalena e Maria di Cleofa avevano osservato con maggiore attenzione dove gli uomini si erano diretti. Nel luogo dov’egli fu crocefisso c’era un orto e in questo giardino un sepolcro nuovo scavato nella roccia, nel quale non era stato ancora posto nessuno. Poiché era vicino, a motivo della Parasceve, lì dunque deposero Gesù, lavato ed unto con olio dopo aver mescolato le spezie con mirra ed aloe per coprire l’odore della salma.”
“La disponibilità di un sepolcro nuovo consente di evitare a Gesù una vergogna ulteriore. Al suo corpo viene riservata una sepoltura rispettando le prescrizioni, comprese la lavanda e l’unzione. In realtà, il tempo stringeva; la salma non è stata preparata in casa a porte chiuse, ma su una roccia del Golgota in pubblico, col contorno di curiosi e del viavai di parenti e conoscenti dei due zeloti crocefissi con lui. Coperta di sangue e sporcizia, essa aveva bisogno di un trattamento adeguato, ma si procedette allo stretto necessario, concordando però nel non deporlo nudo, ma ottemperando in modo onorevole alla prassi”. Precisa Giovanni e continua: “I portatori si fermarono di fronte alla tomba. Con una certa difficoltà, abbassando la testa ed entrando uno per volta, i primi due dall’interno aiutarono gli altri due a sistemare il cadavere nell’incavo per poi rotolare all’entrata una pietra. Il corpo di Gesù è stato collocato in questa specie di sarcofago fatto di nuda roccia, con uno spazio d’ingresso, un accesso basso e stretto, per proteggerlo dagli animali e sigillato con la pietra sepolcrale”.
Riprende a parlare la Maddalena, alla quale non piace quest’eccessiva precisione nel descrivere la sepoltura; evoca troppi pensieri di morte e per lei abbandonarsi a questo stato d’animo significa mettere in dubbio ciò di cui è stata testimone la mattina del 16 di Nisan. Perciò, ci tiene a precisare: “Il Sepolcro per noi è solo il luogo della memoria, rievocazione di un sacrificio di amore, ma non ci possiamo fissare su di esso bloccando tutto ciò che il Maestro ha iniziato. Chi spera di trovare Gesù nella tomba non fa altro che reiterare il pianto. Invece, egli ci ha promesso d’incontrarlo in Galilea, dove ha vissuto e ha insegnato a sperare nella salvezza alla fine dei tempi.”
La donna ha una pausa, poi si schiarisce la voce e con un tono più sfumato riprende: “Non è sufficiente il semplice vedere per fare esperienza del Risorto. Quando ho visto il Maestro ancora pensavo al suo corpo trafugato che avrei voluto recuperare. Soltanto il sentirmi chiamare mi ha scosso dall’intontimento nel quale ero precipitata. Nessuno ha mai pronunziato il mio nome in quel modo: al dolcissimo sillabare di M a r i a ho risposto immediatamente e senza esitazioni Rabbuni. Queste due parole adesso sono per me un dialogo costante. E’ la mia esperienza della risurrezione: sentire di nuovo il mio nome pronunciato da chi credevo aver perso per sempre. Non mi sono serviti gli occhi, l’ho riconosciuto sentendogli pronunciare il mio nome e quella parola ha riscaldato il mio cuore perché la risurrezione è anche il percepirsi chiamati da chi ci conosce e col quale si ha un rapporto personale. Questo rapporto io l’ho ristabilito in quel momento, quando non mi ha semplicemente chiamato donna, ma Maria.”
“La mia reazione è stata immediata. Ancora china verso il sepolcro, non mi sono voltata indietro alla ricerca di altre presenze sconosciute nel giardino, ma verso di lui guidata dalla sua voce melodiosa. Ormai non dobbiamo più cercare il Maestro indietro, nel passato di una esperienza conclusasi. Egli va guardato come colui che ci chiama adesso ed allarga le nostre prospettive. Ero precipitata nella confusione del non sapere dove avessero posto un cadavere ed avevo manifestato l’intenzione di andare a prendere il corpo del maestro morto, ma ho compreso che tutta la buona novella che egli ci invita ad annunziare è proprio questo: andare tutti dal Padre nostro. Vedere in modo circospetto luogo e cose mi conduceva fuori strada per cui ho scambiato il risorto per il custode di un luogo di morte, ma il mio nome da Lui pronunciato si è trasformato nell’annunzio della presenza definitiva del Risorto nella mia vita”.