Tommaso e Giovanni ritengono esaustivo il racconto delle donne. Si è fatto tardi; decidono di tornare al giardino degli ulivi. Salutata la padrona di casa, escono e, mentre camminano, continuano i loro commenti. Didimo non si trattiene nel pronunziare severi giudizi su ciò che ha appena udito: “Piccoli uomini, sventurati nella loro mediocrità; non si sono scossi nemmeno allo spettacolo dell’ecce homo. Attorno a quest’uomo del dolore, pegno di amore, verità e libertà, Pilato non sa reagire, se non con un insipido gesto di presa di distanze: si lava le mani, lascia fare, abdica alle proprie responsabilità. Mediocre quanto Erode, egli non sa scegliere tra paura e giustizia, tra menzogna e verità; così la dà vinta agli astuti ed astiosi urlatori del Sinedrio”.
Giovanni, più riflessivo, aggiunge: ”Nel corso della vita Pilato ha incontrato tante e così diverse persone. La funzione che svolge e il carattere lo inducono a dubitare degli idealisti e misurare tutto in rapporto al suo radicato scetticismo; non riesce ad accendersi, la sua rotta interiore è ferma al giusto mezzo. Egli ritiene di condurre, in tal modo, una vita tranquilla e normale; non si accorge di essere precipitato nella mediocrità. Il procuratore si confonde con la propria funzione, come Caifa ed il suocero; tanti scribi e sadducei sono impegnati ad affermare la propria opinione per difendere i loro interessi per questo si agitano e si scontrano pretendendo di essere presi sul serio. Non si accorgono che, rispetto allo sconfitto di quel momento, sono dei ciechi che sgambettano, incapaci di cogliere la splendida realtà nella quale si sono imbattuti. Non vogliono aprire gli occhi per vederci chiaro. Che cosa è la verità? Si domandano. Ma non si fermano a riflettere, non concedono al proprio cuore la possibilità di riempirsi della felicità che arreca già la sola ricerca, rinunciano a volare in libertà al di sopra della morte”.
Mentre si scambiano questi pensieri, i due giungono al Getsemani; sono veramente stanchi, si adagiano e subito sprofondano nel sonno.
Di buon mattino, i due apostoli decidono di continuare il loro viaggio. Giovanni lo considera ormai un vero e proprio pellegrinaggio per rinsaldare la memoria di ciò di cui è stato spettatore e che vuole tramandare. Tommaso ritiene quanto mai istruttiva l’inchiesta che sta conducendo. Questa volta i due non intendono ritornare in città; costeggiano le mura per recarsi al Golgota. Camminano in fretta; Tommaso attento ad ogni particolare, Giovanni già rattristato al pensiero di dover ritornare sul luogo dove si è consumato l’ultimo atto del dramma che ha visto coinvolto il Nazareno. Sono così assorti nei loro pensieri da notare a stento le persone che incontrano: qualche pastore con il gregge, alcuni pellegrini che s’affrettano ad andare al Tempio, molti che ritornano ai loro villaggi dopo la settimana di solennità giudaiche.
Il Golgota è fuori della città, nelle vicinanze c’è un giardino con dei sepolcri. E’ collocato a nord-ovest del tempio di Erode, all’angolo del primo e secondo muro. Dal palazzo di Erode a sud, dove soggiorna Pilato, dista meno di 500 metri e appena 60 dal secondo muro ad ovest. In primo piano, di fronte, si nota il quartiere del mercato, sempre animato dallo sciamare di acquirenti e di venditori, posto ideale per trasformare ogni esecuzione in un monito, sullo sfondo la città alta circondata dal primo muro col l’agorà poco più avanti. L’irregolarità del terreno disegna un’elevazione simile alla testa di un calvo. Lo spuntone di roccia non è molto elevato, un piccolo colle a settentrione di un’ampia cava di pietra di malachite, bianca e dura, a nord-ovest di Gerusalemme. Il terreno degrada a forma di scalinata da ovest ad est e presenta fori di considerevole spessore lasciati da scalpellini interessati ad ottenere pietre massicce e ben squadrate. Il loro lavoro, col passare degli anni, ha disegnato il paesaggio, caratterizzato da un cono alto 11-12 metri, che termina appunto con quella particolare forma. Nei pressi, sebbene a prevalere sia una sorta di deserto di pietra, contrassegnato dalle rocce che sbucano dal terreno e da frantumi d’argilla ad ovest e a nord dell’altura, si notano dei giardini proprio in prossimità della porta nel primo muro; poca cosa, circa 40 metri in larghezza, delimitati ad ovest da pareti verticali nelle quali i tagliapietre hanno scavato delle tombe. I radi alberi e qualche arbusto non riescono a nascondere l’immondezzaio, nel quale si è abituati a buttare di tutto.
La roccia è stata scelta dalle forze di occupazione come luogo per le esecuzioni capitali. Posizione e disposizione rispetto alle mura della città consentono l’auspicata pubblicità che le autorità pagane intendono assegnare al loro rituale per amministrare la giustizia. Infatti, nei pressi si snoda il frequentatissimo asse viario per Giaffa e Cesarea affollato di visitatori. In tempi normali possono essere migliaia e nei giorni di festa anche decine di migliaia.
Il sole comincia a farsi sentire, ma non è fastidioso; invece, i due frettolosi viandanti provano un certo disgusto a causa dell’odore per nulla gradevole proveniente dalla montagnola posta all’uscita di una delle porte di Gerusalemme. Giovanni sta per dire al compagno di viaggio che sono arrivati, quando un grido straziante riempie l’aria. Appena svolta l’angolo si trova di fronte ad un crocefisso, un uomo giustiziato il giorno prima ancora vivo nonostante i dolori lancinanti. Una piccola folla è radunata a distanza di sicurezza per non infastidire i soldati di guardia, temono una loro reazione. Tutti sanno che l’aquila romana non fa complimenti; quell’impietosa durezza le ha consentito di conquistare il mondo.
Il disgraziato era stato inchiodato al legno in maniera arbitraria, secondo l’umore del boia. Infatti, la crocifissione, in mancanza di prescrizioni ufficiali o piani di esecuzione può assumere forme diverse; per i soldati, comunque praticata, rappresenta un’occasione per soddisfare il loro represso sadismo. Nudo e col corpo segnato dalle ferite, il condannato era stato disteso con le braccia sul patibulum, la traversa della croce, per consentire ai carnefici d’inchiodarlo. I soldati incaricati erano romani e avevano preferito, com’è loro costume, immobilizzare il condannato con un chiodo confitto ai polsi. Il criminale è stato tirato e spinto in alto su un palo, lo stauros o legno di tortura, poi fissato ad una crux saldamente conficcata nel terreno, una crux commissa, alla quale il disgraziato è appeso poco sopra il terreno, circondato da altre croci, più alte, che lo sovrastavano, già pronte per successive esecuzioni. E’ bloccato al legno verticale con i piedi, che i soldati, invece di separare, avevano legati con corde l’uno sull’altro. Per aumentare il dolore e risparmiare chiodi, oltre che per ridurre il lavoro, avevano sistemato le due gambe tirando con forza brutale in modo da fissare al legno con un sol colpo ambedue i calcagni.
Il crocefisso è lì dal giorno prima. Sta morendo lentamente, sprofondando a poco a poco per il peso del suo corpo, tormentato dalla sete, perseguitato da dolori lancinanti al capo, che lo fanno gridare a intermittenza, e dalla febbre alta, causata non solo dall’infezione procurata dai chiodi, ma anche dallo shock per le ferite e la perdita di sangue durante la flagellazione alla quale era stato sottoposto. La circolazione sanguigna, sempre più flebile, minaccia un prossimo arresto cardiaco. L’essere sospeso gli determina infatti difficoltà di respiro a cui il malcapitato cerca meccanicamente di porre riparo tentando di sollevarsi rinnovando, in tal modo, i tormenti perché, sotto il peso del corpo, le membra minacciano di lacerarsi. A questi dolori fisici si aggiungono quelli psicologici alla vista di cani randagi che leccano il sangue sgocciolante dallo stauros, mentre alcuni corvi gracchiano nelle vicinanze, pronti a carpire l’occasione propizia per beccare un prelibato boccone scegliendo tra le parti molli e più indifese, come gli occhi o lo stomaco.
Per prolungare le sue sofferenze, i militari con istinto sadico hanno dato a guisa di sedile un piolo al giustiziato, obbligato a rimanere sempre nella stessa posizione, infatti, se si allontana rischia di lacerare le tibie che lo sostengono. Ma il disgraziato, fermo ormai da troppo tempo, con un movimento brusco tenta di prendere una boccata di ossigeno, perde il sostegno del piolo, si piega su se stesso avviandosi, tra atroci dolori, ad esalare per soffocamento l’ultimo respiro. Intanto non controlla gli sfinteri con una conseguente estrema umiliazione per quel poco di coscienza che gli è rimasta, offrendo ulteriore piacere ai più perversi che stanno guardando ed occasione di tenebrosa curiosità ai più giovani, i quali hanno visto il crocefisso nudo perdere qualsiasi capacità di dominare i propri muscoli torturati da continui spasimi.
Giovanni non ha il coraggio di guardare. Invece, Tommaso vorrebbe analizzare tutto con la freddezza del medico capace di fare un’autopsia senza battere ciglio, ma viene distratto dai commenti di alcuni ragazzi.