A Vallo, in cattedrale, lo scorso 6 luglio è stata celebrata la messa di suffragio per mons. Giuseppe Rocco Favale, vescovo diocesano per ventidue anni. In chiesa si sono radunati sacerdoti e religiose, non molti fedeli e nessuna autorità civile, assente anche la rappresentanza dell’amministrazione del capoluogo nonostante il manifesto fatto affiggere per annunciare il decesso del prelato fosse denso di riflessioni teologiche degne di un forbito gesuita. Proprio a Vallo sono ben visibili i frutti più concreti dell’impegno di mons. Favale, il cui disegno pastorale ha sempre tenuto presente la centralità della cittadina rispetto alla diocesi bloccando orientamenti centrifughi immaginati in precedenza. Probabilmente sarebbe risultato opportuno un più partecipe attestato di riconoscenza.
In attesa che iniziasse il rito ho cominciato a fare considerazioni sull’espressione: Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.
Essere servo inutile implica la disponibilità ad accettare il Vangelo non come operazione di marketing aziendale, ma convinta fiducia in Dio, dimenticando ciò che la gente può pensare e preoccuparsi di essere grande agli occhi di Dio; servo inutile, quindi, perché si è compiuto solo ciò che andava fatto, senza superbia e vanagloria. Queste parole di Gesù sono difficili da digerire. I biblisti cercano di usare un aggettivo meno ostico di inutile per tradurre il termine greco, che ha diverse sfumature, ma la difficoltà resta, anche se occorre ricordare che nel Vangelo il servizio non si giudica mai inutile.
Queste sono state le mie riflessioni mentre attendevo l’inizio del rito e mi sono ricordato del Repertorio fotografico delle opere realizzate da mons. Favale in un ventennio, chiedendomi cosa potesse unire il lettore alla realtà testimoniata dalle pagine di quel libro.
È la fede riconoscente in Gesù, la cui vicenda di duemila anni fa ha dimostrato che egli è il Cristo. In suo nome la rievocazione di personaggi, sensazioni, ricordi, affetti, accomuna, anche se si è partecipi di un quotidiano sovente distante e diverso. Il popolo si riconosce in queste testimonianze architettoniche e manifesta l’amore per una cultura, una tradizione, una liturgia, un credo, segno di una radicata pietas verso le radici che, nei vorticosi mutamenti imposti dalla globalizzazione e nella crisi comune che attanaglia lo spirito umano nel terzo millennio, spesso costituiscono l’unico approdo sicuro per recuperare valori e mantenere viva la speranza. Sfogliare il volume ed osservare le foto di chiese e di luoghi di culto conferisce un senso di pace. Tante chiese hanno scandito i secoli esaltando la devozione verso i santi nel nome del crocifisso per testimoniare, nonostante tutto, la possibilità di vivere le beatitudini. Il repertorio consente un viaggio a ritroso nel tempo per percorrere luoghi conosciuti e meno noti. Ogni pagina è una tappa del pellegrinaggio interiore verso la Salvezza, ogni fotografia è occasione di nostalgia per evocare non solo la bellezza dei simboli, delle icone, degli edifici, ma anche per percepire i benefici di un incontro di preghiera, di una messa particolarmente coinvolgente, dei sacramenti ricevuti, tappe della crescita verso l’incontro col Risorto per rinverdire speranze e conferire concretezza ai propositi. Per chi ha sensibilità storica il volume costituisce anche uno scrigno di testimonianze per leggere il profondo di un popolo attraverso la dedicazione delle chiese, storia millenaria animata dalla ritualità greca e latina, persistenza di fedeltà alle scelte degli avi.
L’intervento di mons. Favale ha interessato tutto il territorio diocesano, coinvolgente attestato dell’attenzione di un presule per la sua chiesa, realtà territoriale complessa sia per l’estensione sia per le marcate differenze ambientali. Essa, infatti, abbraccia tutto il Cilento dal mare, con le celebri città di Velia e Paestum, alla cima più alta della Campania, quel Cervati che domina al centro e con la sua cappella, dedicata a Maria regina, esalta la Teotokos, venerata nel più celebre santuario diocesano, quello del Gelbison. Maria, la donna ebrea alla quale è dedicato il numero maggiore di chiese in tutta la diocesi, è segno di una radicata devozione che trova rispondenza nel profondo dell’animo popolare. Ecco il motivo per cui mons. Favale ha voluto raccomandare alla sua protezione tutta la diocesi dichiarando il Cilento “terra di Maria”.
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A questa tradizione è profondamente avviluppata l’invocazione piena di speranza ai santi, molti di essi titolari di parrocchie e di chiese, dai più antichi: Vito e Nicola, ai più semplici, come la giovine Goretti. Questo percorso di devota spiritualità incarnata nella testimonianza dei santi è possibile mentre si sfogliano le pagine del volume. Sorge spontaneo il senso di riconoscenza per chi ha tanto operato impegnandosi a preservare, abbellendoli, luoghi di culto nei quali la nostra anima trova riposo, il nostro spirito riceve vigore, i nostri affetti trovano ristoro, la nostra speranza determinazione a continuare e il nostro amore riprende, qualora per qualche motivo lo abbia interrotto, il dialogo di fede col Padre, grazie al Figlio, che in questi edifici si fa presente per mostrare l’ineffabile bontà dell’Amore mediante l’azione dello Spirito che riscalda, come nessuno sa fare, i cuori, illumina le menti, rende sapida la vita.
Questa pervadente esperienza comunitaria ha attraversato i secoli e costituisce ancora un elemento sul quale costruire una continuità di speranze, nonostante modelli e ragioni di vita inducano ad accettare radicali mutamenti, dalle prospettive sempre più incerte. Perciò, recuperare e salvaguardare la memoria grazie al recupero e al restauro di tante chiese operato da mons. Favale non ha significato soltanto fare un esercizio di religione familiare e comunitaria, ma è una concreta ragione di vita. Ciò emerge sfogliando il volume e osservando la struttura architettonica e l’ubicazione di tante chiese per consolidare intuizioni e sensazioni evocatrici di colori e di valori nei quali si riflette una comunità della vecchia Europa che custodisce le ragioni di vita di un mondo antico ma ancora vitale. A contatto con i luoghi che hanno accompagnato l’infanzia di tanti è possibile evocare storie trasformatesi in stretto legame col paese natale e che, di solito, rimandano ad esperienze legate alla chiesa, alla religiosità, alla festa. Non è solo un mondo di ricordi evanescenti, perché queste esperienze consentono d’intessere un contatto molto concreto con le radici storiche della propria comunità. Il calore della rievocazione può diventare una gradita terapia per contrastare l’arsura di sentimenti perché, in ogni paese, percorrere la strada che porta alla chiesa infonde la sensazione che il tempo abbia bloccato il suo fluire. Nell’edificio sacro si entra sempre con una certa emozione per la sensazione d’incontrare fantasmi protagonisti delle vicende passate. L’aria leggera conferma l’impressione che quelle mura quasi facciano eco alle voci di chi è impegnato a ripetere per l’ennesima volta storie personali e di famiglia. Nell’osservare la scenografica sorge spontaneo il richiamo alla saggezza di una cultura antica della quale ammirare, nonostante i limiti ed i tanti dolori della vita, anche gli elementi di umanità e la coerenza dei valori per conservare un’incrollabile fiducia nella Provvidenza.
Quindi i servi sono inutili non perché non servono a niente; se si considera con attenzione la radice della parola greca, sono tali perché non cercano il proprio utile avanzando rivendicazioni o pretese. Loro gioia è servire la vita. Quindi questa parola, a prima vista dura, è liberante: servi inutili non per minimizzare la dignità ma per collocarsi al posto giusto nel grande progetto del provvido Amore. Il Sì pronunciato libera dal presuntuoso senso del credere di valere; così si diventa utili in ordine al piano di Dio, fonte certa di gioia e segreto del vero ben-essere anche per mons. Favale.