Settantadue anni, questo è il tempo trascorso dal momento in cui l’Italia si eleggeva a Repubblica, sette decenni di pura e intensa politica partitica hanno tentato di cancellare a suon di democrazia e libertà quei vincoli ai quali la nazione è stata legata per secoli: regni, principati e stati preunitari hanno lasciato il loro ruolo confusionale e spesso contraddittorio, per rifugiarsi nella storiografia e lasciar così a chiunque la propria interpretazione, su un’epoca che risulta oggi essere quasi dimenticata. Eppure è proprio nelle vicende storico-sociali dei decenni addietro che l’attuale potrebbe trovare, se non le risposte alle sue domande, quanto meno gli spunti e le dottrine per non errare nei concetti di libertà e di democrazia, specialmente nell’argomentare di politica. E già, perché quello che noi italiani non abbiamo mai fatto o fatto troppo poco, è recepire la politica “cosa” diversa dai partiti; tanto che ci viene facile dire: «la politica è ripugnante» oppure «la politica è sempre la stessa» invece no, nulla di tutto questo, vi è una sacra e inconfondibile differenza tra la politica, i partiti e i politici.
Questa diversità sta nel semplice fatto che la prima è, a sé stante, un originale concetto per definire lo strumento con il quale esercitare un’attività decisionale, certo è anche una scienza, una tecnica fine al suo utilizzo nella organizzazione e nella amministrazione della vita pubblica, tuttavia però essa “è” proprio perché è tale, per cui non va intesa secondo le proprie necessità, ideologiche o materiali. Dunque la politica si esercita per conquistare condizioni ottimali per la quotidiana vita di una comunità, territoriale o nazionale che sia, e per tutelare la sovranità della nazione, mirando altresì ad accrescere le ricchezze del paese. I secondi invece sono, per dirla con il giurista politologo Maurice Duverger, quei raggruppamenti organizzati in vista della conquista e dell’esercizio del potere, quindi sono (e dovrebbero essere) il veicolo con il quale avviarsi, o tentare di avviarsi, verso il potere politico gestionale, ovvero per far sì che le condizioni prima dette si verifichino. I viaggiatori su questo mezzo sono infatti i terzi sopra citati: i politici. Quest’ultimi una volta saliti su questo enorme e comodo carrozzone che va, e va, verso chissà quale abissale ricchezza di potere, difficilmente tireranno il freno d’emergenza, per far sì che questo treno si fermi in qualche preciso punto dell’etica politica. Ed è qui che l’idea positiva di partito, come fenomeno storico specifico, perde il suo concetto naturale, per spostare la sua attenzione su tutt’altre cose, fuorché il bene collettivo di una nazione. La politica c’è sempre stata, più precisamente essa è nata, si può dire, quando l’uomo sofista ha scoperto che la sovranità regale e sacrale del tradizionalismo poteva ben essere esercitata anche dalle città-stato. Privarci di questa condizione, oppure di questo strumento, vorrà dire non poter mai coniugare società con nazione, oppure entrambi con progresso.
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Tutto ciò non è risentimento verso niente e nessuno, ma se nella Nazione, nella nostra Repubblica, concetti etimologici ed epistemologici vengono meno alla naturale percezione che la politica è cosa necessaria, e specialmente se tutto quanto si riversa sui territori locali, dove molti invocano, ne è vero, conoscenze giuridiche, storiche e legislative, allora “alea iacta est”, il dado è tratto. E si perché quello che più nuoce alla dannosa politica nazionale è la stessa dannosità che i micro territori, volendo ad ogni costo assimilare sembianze e comportamenti dei politici e dei partiti, dimenticano spesso che la quotidianità esige “politica”. I fatti ultimi della situazione nazionale hanno elargito, benevole o malevole, alcuni seri suggerimenti sia sull’identità nazionale e locale che sul dubbio: se e come si potrà avere ancora fiducia nei politici e nei partiti. Ma sono domande queste che neppure ci facciamo e allora, alla via così, ecco che sui territori locali ci si appresta a creare sezioni politiche quasi a correre in aiuto ai partiti che si distinguono per nome ma non per caratteristica, ma i partiti hanno mai aiutato i territori? Cosa fare allora affinché si possa ristabilire l’esercizio della politica fine al suo concetto ed evitare una denigrazione verso se stessa? Le risposte le possiamo trovare nella non centralità dei partiti, questo magari andava bene decenni fa, ma della politica; se vogliamo che essa si esprima in tutta la sua potenzialità e funzionalità esecutiva e necessariamente conservare la nostra libertà e integrità, prima che un qualche altro sconosciuto “soggetto” possa privarci di quella democrazia che ha fatto capolino nei sette ultimi decenni, ma che mai si è manifestata nella sua completa figura. Si pone dunque una speranza nel futuro? Se sì, lo dobbiamo fare e lo possiamo fare solo iniziando a costruire dai piccoli territori per arrivare poi ad edificare nei grandi spazi della società italiana.