Caro direttore, come ho accennato la scorsa settimana, forse un’accurata informazione sulle condizioni del nostro ospedale e sulle modalità di trattamento dei malati può costituire un impegno primario per comprendere se, fatti tutti gli sforzi e assicurate prestazioni ottimali, le eventuali disfunzioni sono frutto di cause superiori alle possibilità d’intervento dei responsabili politici e dei burocrati, oppure una ulteriore aggravante per una mala sanità causata dalla propensione a soddisfare indicibili interessi per il radicarsi di egoismi territoriali legati a convenienze elettorali, per effettiva incapacità personale, per la predisposizione ad accontentare sempre e comunque il prepotente che decide a chi e come elargire favori. Sono argomenti che potrebbero stimolare la stampa ed i media locali per iniziare una serie di servizi e di articoli nei quali far emergere il giornalismo d’inchiesta e porre riparo alla burocratizzazione delle veline. Dalla scrivania, illuminata dalle luci della ribalta, si leggono e rileggono notizie ben selezionate fornite da chi è pronto a foraggiare quanti sono disposti ad esaltare la verità del finanziatore, posizione senz’altro comoda e conveniente, ma certamente non abilita a produrre risultati meritevoli del premio Pulitzer!
Qualcuno potrebbe chiedersi quale possa essere la connessione tra ospedale e chiesa locale. In realtà non si può dimenticare che la sofferenza, ospite costante del primo, trova nella missione della chiesa una risposta di senso che dovrebbe aiutare a rendere il dolore meno assurdo ed intollerabile. Se facciamo riferimento all’ospedale di Vallo, allora dobbiamo ricordare che la struttura è nata e si è ampliata grazie all’opera di tre preti impegnati nel sociale mentre esercitavano il loro ministero. Il primo è don Luca Petraglia e il nome del nosocomio ricorda il suo impegno di pioniere nel fornire un minimo di assistenza medica alla popolazione del Cilento. A lui contemporaneo e determinante nell’avviare i lavori di costruzione è il vallese don Alfredo Pinto, che ha fatto dell’impegno educativo la sua missione; morto improvvisamente, gli succede don Pietro Guglielmotti, che ha retto l’ente ospedaliero fino agli anni Settanta. In seguito, attivismo regionale, spesa pubblica e medicina sociale hanno animato la parabola dell’ospedale, i suoi momenti di eccellenza e l’attuale pilotato tramonto, voluto probabilmente dai demiurghi della spesa pubblica per esaltare interessi settoriali. A costoro non è fuor di luogo ricordare che la struttura, che si sta svilendo con la presunta motivazione del necessario risparmio per il progressivo prosciugarsi delle risorse, è nata per la collaborazione corale della popolazione, la quale con le offerte fatte al santuario del Gelbison ha finanziato anche i primi interventi. Perciò, nel tramandare questa memoria storica, la chiesa locale ha anche la responsabilità di sollecitare gli attuali amministratori perché diano pubblicamente conto della situazione, spieghino le prospettive ed enumerino gli interventi posti in essere per riparare a situazioni di evidente criticità e palesemente irregolari se ci si richiama al dettato costituzionale e alla chiara volontà dei suoi estensori di ritenere prioritario il diritto alla salute dei cittadini. Chi rimane in silenzio o alla finestra a guardare, non solo manifesta una colpevole impotenza, ma addirittura rischia di divenire complice di un eventuale sfascio.
Esiste una ulteriore e, probabilmente, più cogente motivazione perché la chiesa locale prenda posizione. Essa trae spunto dal vangelo letto domenica scorsa, festa di Cristo Re. A proposito del giudizio universale per quattro volte si ricorda che verterà su come ci si è comportati verso i fratelli nel bisogno. Tra le situazioni elencate c’è anche quella del malato, il richiamo al dovere di visitarlo ed, implicitamente, di curarlo in modo adeguato. Il passo fa riferimento alla rivelazione della verità ultima sull’uomo descrivendo situazioni di un percorso che fa dell’amore la sostanza della vita, passi verso il premio finale rivelando che il legame di Gesù col malato è così stretto da identificarsi con lui. Immaginate allora la sensazione di soddisfatta realizzazione nel sentirsi dire “l’avete fatto a me”, cioè comportarsi nella convinzione che il malato è come Dio perché carne di Dio sono i poveri, cioè tutti coloro che sono nel bisogno. Immaginate la soddisfazione del medico o dell’infermiere, del direttore e dell’amministrativo di un ospedale se riflette sul fatto che quando si visita un malato si tocca Gesù. Occorre ricordare che il processo al quale siamo sottoposti avviene su questa terra; solo la sentenza é pronunciata un domani nel giudizio universale, rivelazione della verità ultima sull’uomo. Allora emergerà l’importanza del percorso che fa capire come l’amore sia la sostanza della vita. Il cammino felice verso il Regno è possibile perché la memoria di Dio riserva spazio solo ai gesti di bontà e alle lacrime degli offesi. Ecco perché ad essere allontanato è chi pecca di omissione perché risucchiato nel turbinio della globalizzazione dell’indifferenza.
Quando mai ho fatto ciò? Potrebbe dire chi è laicamente convinto che la vita sia un percorso senza ingressi nei luoghi di culto. Ma nella rivelazione finale si apprenderà che l’essere misericordioso verso un uomo o una donna significa esserlo anche verso Gesù. Il merito comunque è grande perché l’azione compiuta è avvenuta in piena gratuità, senza attesa di ricompense. Quindi anche chi non è cristiano sarà giudicato in base alla relazione che avrà saputo intessere con i più piccoli e tra questi vanno annoverati certamente i malati, fratelli di Gesù, il povero per eccellenza. Diventa quindi essenziale il quesito: quante volte ho compiuto omissioni e non ho fatto il bene? Tutti capi di accusa nel giorno del giudizio quando apprenderemo con grande sorpresa che il vero giudice alla fine dei tempi sarà il più povero di tutti