L’eredità come riconquista acquista valore di eticità come sostiene Goethe sottolineando, tra l’altro, che “l’eredità non è un atto passivo di ricevere un dono, bensì un atto soggettivo di ripresa del dono stesso”. Prende le mosse da qui Massimo Recalcati nel suo bel libro “IL COMPLESSO DI TELEMACO”, di cui mi sono già occupato e che ho ripreso fra le mani, profittando di un weekend uggioso per rileggerlo e trarne qualche spunto per analizzare la situazione politica nei miei territori di origine. L’erede è fuori dubbio il figlio che si appropria per legge del lascito del padre, ma anche una comunità che riscopre ed esalta l’eredità della storia ossificata in atti e comportamenti di intere generazioni e sacralizzata dalla tradizione. I miti e la letteratura ci hanno indicato tre modelli di figli/eredi che sono diventati punto di riferimento nel corso dei secoli: Edipo, Narciso, Telemaco. Il mito di Edipo è noto. In sintesi narra che Edipo uccise il padre Laio per un contenzioso sul diritto di precedenza ad un quadrivio, fu acclamato re di Tebe e sposò la madre Giocasta, che ne era regina, e da lei ebbe dei figli. Il tutto inconsapevolmente. Quando l’indovino Tiresia gli svelò la verità, lui, folle di dolore, si cavò gli occhi e girovagò incapace di rassegnarsi alla vergogna del parricidio e dell’incesto che lo rese sposo della madre e padre dei suoi fratelli. E fu tragedia di fallimenti per la famiglia e per il regno. Il mito nella sua tragicità ha dato luogo ad un lungo dibattito sul “complesso edipico” con risvolti di ordine psicologico, sociologico e politico. Ma di sicuro, come erede, Edipo non è un modello positivo perché è furia di possedere tutto, di avere tutto, di sapere tutto, di essere tutto. Furia incestuosa, spinta a negare l’esistenza del limite, a rifiutare l’impossibile che la legge della parola inscrive nel cuore dell’umanità.
L’altra figura di figlio/erede è Narciso, vanesio ed infecondo, tutto preso dal protagonismo dell’apparire, si compiace della sua immagine che gli rimanda lo specchio dell’acqua, se ne invaghisce e si pavoneggia, tutto preso, compreso e soddisfatto dell’egotismo esaltato e megafonato fino al parossismo. Non ha memoria del passato e non si proietta nel futuro. Prende la vita come gioco, e vive nella vacuità della mancanza di impegno. È il simbolo della evaporazione del padre, morbosamente malato dell’orgoglio della propria identità. È una personalità infantile, che non diventerà mai adulta. È bozzolo che non sarà mai farfalla e non conoscerà mai la feconda fatica ed il salutare dolore di esistere.
Terza figura simbolo di figlio/erede è Telemaco, cantato da Omero nell’Odissea. Di fronte allo spettacolo indecoroso dei Proci, che attentano all’onorabilità della madre Penelope, dilapidano le sostanze della casa del padre Ulisse, se ne contendono la sposa, le ricchezze ed il regno, aspetta ed invoca il ritorno del padre. Minerva, voce della coscienza (etica), della ragione (Legge) e del cuore (passione ed impegno civile) lo consola, lo scuote e lo motiva nel profondo sulle rive del mare. Coraggioso e fiducioso parte per Pilo e Sparta alla ricerca del padre fino a quando non lo ritrova e con lui combatte per difendere casa e regno. È l’erede giusto, l’erede della riconquista e della riappropriazione. Tutti abbiamo aspettato un padre sulle rive del mare, che nella metafora è porta di casa o limite di accesso alla proprietà di famiglia (campagna, bottega artigiana, attività commerciale, studio professionale, ecc. ecc.) o semplicemente un libro per coglierne messaggi e valori, per riceverne il testimone e farlo proprio nella consapevolezza acquisita dell’impegno nella collettività.
Fin qui le notazioni, per sommi capi, della eredità di figli nella famiglia. Ma c’è una eredità più impegnativa, quella di cittadini in una collettività, piccola o grande che sia. Impegna tutti a qualsiasi livello ed, ovviamente, con diverse gradazioni di responsabilità. Ed anche nella collettività esiste l’erede Edipo che costruisce o ritiene di costruire le sue fortune politiche, nel senso di impegno nel governo della polis, eliminando il padre, cancellandone la memoria, con la presunzione che la storia cominci da lui. C’è il Narciso vanesio che si realizza pavoneggiandosi nella vacuità dell’apparire, completamente ubriaco di egotismo e totalmente improduttivo per la collettività. È un flatus vocis, che rotola e si frantuma nelle schegge dell’eco in fondo ai burroni, è luce riflessa nello specchio che rifrange luce, ma non riscalda, il fumo senza profumo. Pago di sé, ma improduttivo per gli altri. E c’è, infine, il cittadino Telemaco, che cerca il padre per averne messaggi ed insegnamenti, frutto di esperienza. Riconosce nel padre il maestro e guida e da lui vuole conoscere il passato della collettività che eredita, per impegnarsi ad esaltarla nel presente e consegnarla arricchita di nuovi valori (ricchezze materiali ed immateriali). Potrebbe e, secondo me, dovrebbe essere il vademecum di quanti operano nel e per il pubblico, da sintetizzare in quattro verbi: CONOSCERE, AMARE, DIFENDERE, PROPAGARE. Anzi Conoscere per Amare, Amare per Difendere, Difendere per Propagare. Ma in giro si agitano tanti Edipo con voglie mal represse di parricidi fisici e ideali, moltissimi, troppi Narciso, che si pavoneggiano senza pudore agitandosi nella vacuità dell’apparire. Ma non vedo molti Telemaco con la consapevolezza della ricchezza da esaltare nel presente e consegnarla al futuro come eredità di valori.
E questo è il quadro che offre il Cilento, che avrebbe bisogno di una PROGETTUALITÀ ad ampio raggio, con conseguente operoso pragmatismo nella realizzazione, per volare alto. Se ne dovrebbero fare carico le istituzioni che contano o dovrebbero contare: IL PARCO, LE FONDAZIONI, I COMUNI, LA POLITICA, attraverso la deputazione regionale, nazionale, europea e i tanti, troppi, minuscoli centri di potere. Ma il Parco è diventato un guscio vuoto, nonostante i tentativi pressappochisti e velleitari della nuova “govenance”, già in carica da due anni e passa, con all’attivo il nulla o quasi, le Fondazioni “passerelle di vanità dell’apparire”, i comuni fabbriche, spesso, soprattutto i più grandi di consenso elettorale non sempre produttive, la deputazione politica inadeguata e poco credibile, gli altri centri di apparente potere che si appalesano, però, sempre più sigle di puro nominalismo. Che tristezza!!! Urge una RVOLUZIONE PROFONDA E RADICALE DELLE COSCIENZE e la pratica vigile e costante dell’ETICA DELLA RESPONSABILITÀ. È l’augurio che faccio a me stesso, innanzitutto, e a quanti amano questa nostra terra bella, ma ferita nella sua dignità, nei suoi valori e nelle sue potenzialità economiche. Continuando di questo passo si ferisce a morte la Democrazia, che, giorno dopo giorno, è come un fiore che appassisce e muore sotto i colpi del fascismo strisciante, tra l’indifferenza generale. Di qui la necessità di: eredi giusti per la riconquista e l’esaltazione dell’eredità, soprattutto dei valori, da consegnare con orgoglio ai posteri, sia privati che pubblici. Anche per questo mi riprometto di fare un viaggio motivato nelle istituzioni cilentane tutte: parco, fondazioni, consorzi, comuni, e istituzioni politiche a tutti i livelli, nella speranza di dare un contributo modesto ma carico d’amore per trovare l’erede/i giusto/i. Comincerò da Capaccio Paestum, dove governa, dal giugno scorso una Nuova Amministrazione con SINDACO il Cav. Francesco Palumbo. Sono ampiamente passati tre mesi dall’insediamento. La classica luna di miele è consumata. È il momento di fare un bilancio sulla base delle tante promesse fatte e dei numerosi impegni assunti, in pubblico e in privato, e delle poche o nulle realizzazioni conseguite PACTA SUNT SERVANDA sostenevano gli antichi in un principio SACRALIZZATO nell’ETICA DELLA RESPONSABILITÀ. Vale per tutti gli amministratori pubblici se vogliono essere credibili ed affidabili presso i propri elettori, ma a maggior ragione per uno come il Cav. Franco Palumbo, che vanta un lungo servizio nell’Arma Dei Carabinieri, il cui motto è “NEI SECOLI FEDELE”. Ma questo sarà oggetto di riflessione nei prossimi articoli all’insegna non partito preso o, peggio ancora, della malevolenza, sentimento che non mi appartiene, ma della verità, comprovata dai fatti che, da sempre, è connaturata alla mia deontologia professionale.