Sono molti quelli che partono, pochi quelli che arrivano. Questo il nodo principale da sciogliere prima di arrenderci all’evidenza dei fatti che, se così stanno le cose, non lasciano scampo ad un territorio che si visto abitare da gente per un tempo pluri millenario.
Infatti, se diamo uno sguardo alla storia della nostra terra fin dal tempo in la era “terra dei miti” sono state innumerevoli le genti che vi sono arrivate, vissuto ed anche estinte.
Prima i Greci che soppiantarono gli indigeni sottomettendoli e assimilandoli. Poi i Lucani che si impadronirono della ricca colonia della Magna Grecia. Anche i Romani non si fecero pregare nel sottomettere la città delle Rose. Seguirono I Saraceni misero in fuga le popolazioni della costa che trasmigrarono sulle colline e, ancora più su, sulle montagne …
Già alla fine dell’800, dopo l’unità d’Italia, iniziò l’emigrazione verso le Americhe che ha preso corpo più consistente ogni dopoguerra: nel 1918 e nel 1945. IL fenomeno ha continuato a rosicchiare risorse umane fino ai giorni nostri con l’emigrazione intellettuale che trova lavoro e riconoscimenti fuori dai confini italici.
Molti sono i giovani che parto e pochi quelli che arrivano in una terra che è stata sempre ospitale ed ha fatto la fortuna di quanti, anche con prepotenza, sono venuti ad “usurpare” il benessere che altri avevano costruito.
Oggi le aree interne del Parco Nazionale del Cilento, Diano e Alburni vivono uno “splendido isolamento” soprattutto nelle terre di “mezzo”, cioè il territorio in cui i borghi sono arroccati nelle colline pedemontane e a ridosso delle pendici dei monti: Cervati, Bulgheria, Stella, Alburni, Gelbison …
La vita è “slow”, cioè lenta, l’ambiente è preservato e protetto, l’atteggiamento degli abitanti è comprensivo e accogliente, i servizi alla persona (assistenza sanitaria, domiciliare, raccolta rifiuti, negozi … anche il divario digitale comincia a restringersi) sono ancora accettabili anche se rivolti più all’interesse di chi li eroga che non ai soggetti passivi che ne sono destinatari.
Insomma, i nostri luoghi potrebbero essere attrattivi per migliaia di persone che vorrebbero sfuggire allo stress di una vita arruffona che non lascia spazio per se stessi.
Si tratta di un processo lento, poco visibile “ad occhio nudo” perché spalmato in un’area troppo vasta per essere segnalato nelle statistiche, ma c’è.
C’è a tal punto che ognuno di noi potrebbe inquadrarlo nel suo orizzonte se solo facesse e mente locale: l’emigrante che ritorna a svernare qui gli scampoli di vita, l’artista che affitta una vecchia casa per ritrovare la vena poetica, il giornalista che acquista un vecchio rudere e lo riatta alle sue esigenze, la coppia con figli che non ne può più della vita senza pause per sé e per i figli, qualche giovane che avendo il privilegio di poter lavorare da remoto con l’ausilio del computer sceglie di “nascondersi” pur facendosi sentire in ogni luogo, appassionati degli sport all’ara aperta che si pongono come punto di riferimento per altri appassionati che li raggiungomo per escursioni, altri arano terreni incolti da tempi remoti e li “fecondano” con piante da frutto, viti, o li utilizzano solo per pascolare armenti …
Sono segnali capaci di travalicare il comune sentire solo quando sono eclatanti ma che, goccia dopo goccia, stanno già segnando il territorio.
Ecco la chiave per aprire la porta di un futuro che, come sempre è stato, non sarà mai come il precedente, ma certamente apparterrà a chi avrà avuto la vista lunga e il coraggio di guardare oltre il presente.
In questo numero di Unico, pubblichiamo le storie di alcuni di loro che vivono già in mezzo a noi, che riconoscono il bello che ci circonda e buono che hanno deciso di assaporare.