In una società contadina, che io ho conosciuto in tutta la sua prismatica attività negli anni lontani dell’infanzia, i lavori dei campi scandivano il ritmo della vita e delle stagioni: la semina, la mietitura, la vendemmia, la raccolta e l’essiccazione dei fichi, la raccolta delle castagne, delle olive erano e, in parte, sono ancora eventi che accendono l’immaginario collettivo e sbrigliano la fantasia e l’inventiva del poeta cantore. E gli eventi politici e sociali, le incursioni saracene, le rivolte, le imprese risorgimentali, le carestie, le siccità, l’emigrazione sono sottolineate con orgoglio e rabbia, con dolore e nostalgia dalla melopea popolare, che è l’espressione più alta della sonorità rasposa del nostro dialetto. Per non parlare della straordinaria bellezza delle feste religiose nel fasto delle processioni colorate, della ritualità dei pellegrinaggi ai tanti santuari disseminati sul territorio e che erano e, in parte, sono ancora allietati dalle “ottave” della “compagnia”. E gli strumenti di accompagnamento erano sempre gli stessi: la chitarra battente e l’organetto. È tutto un mondo ricco di fascino, carico di emozioni che rischia di scomparire travolto e cancellato dalla omologazione della cultura mass-mediologica: per le ultime generazioni questo enorme patrimonio di tradizioni, che hanno caratterizzato per secoli la quotidianità delle piccole e grandi comunità del Cilento, è già preistoria. Eppure approfondire questi temi, salvare questa memoria storica, faciliterebbe un percorso a ritroso alla riscoperta delle proprie radici ed accenderebbe un legittimo orgoglio di appartenenza. Mancano le occasioni e le provocazioni alla riflessione ed alla ricerca? La frequentazione dei Musei della civiltà contadina di Moio della Civitella, di Ortodonico, di Morigerati messi su con paziente passione da intellettuali ed amministratori del territorio potrebbe accendere l’interesse per un mondo che va riscoperto e valorizzato. La mia riflessione di oggi va in questa direzione e vorrei occuparmi, tanto per cominciare, dei pellegrinaggi ai santuari mariani, ma non solo, del nostro Cilento. Come tutti sanno sono sette ed ubicati tutti in cima ai monti del territorio e vi si venerano sette Madonne (del Granato, della Stella, della Civitella, del Carmine a Catona di Ascea, del Gelbison, di Pietrasanta, della neve sul Cervati). La fantasia popolare le ha ribattezzate le “Sette Sorelle”. Il Santuario più noto oltre che più frequentato è quello del Gelbison, dove si venera “La Maronna re lo Monte, che resta aperto dai primi di maggio ai primi di ottobre. Come ogni anno la chiusura, per la pausa invernale, è prevista per la seconda domenica di ottobre, che quest’anno cade l’otto. C’è da giurare che anche quest’anno, come sempre, saranno tantissimi i pellegrini che scaleranno litaniando la montagna, affideranno alla Madonna desideri e speranze e deporranno ai suoi piedi, come ex voto, la “centa” carica di candele intonse e “annoccata” di nastrini, “zaaredde” colorate. Di pellegrinaggi e, conseguentemente, di “cente” si occupa anche Gaetano Puca nel suo libro “La montagna che parla”, dedicato al Santuario della Madonna del Granato sul Monte Calpazio, di cui mi sono già occupato. E, a tal proposito, scrive: “nei riti del pellegrinaggio sono previste le “cente”, navette votive portate in testa da una donna, seguita da altre, cantando il rosario, la litania ecc.)… Il pellegrinaggio al Monte di Novi prevede un rituale particolare. La montagna si sale a piedi. La sosta è prevista presso le sorgenti dell’acqua dette “iumo friddo”… Il pellegrinaggio al Santuario della Madonna del Granato si svolge in gruppo solo il 2 maggio ed il 15 agosto. Anche al Santuario del Granato si portano le “cente”. Questo termine deriva da cingere. In alcuni paesi del Cilento, come ad Ascea si dice cinti, mentre a Capaccio si usa il femminile “cente”. I santi del medioevo si cingevano del cilicio, il prete si cinge del cinto, prima di celebrare la Messa; così cintu, cinto, centa derivano da cinto, che nella terminologia simboleggia sacrificio e penitenza. Lungo il pellegrinaggio si cantavano e si cantano inni devozionali, i cui versi sono frutto della creatività collettiva dei fedeli. Ed in proposito esiste un discreto campionario che si è tramandato di generazione in generazione nel corso degli anni. Ne trascrivo qui di seguito alcuni esempi: “simo iuti e simo venuti/ e mpietto portiamo la tua fiura/ Sempe mpietto la voglio portà; sempe a Maria io voglio uardà”. Oppure “Mentre cammino sento una voce/Da Maria mi sento chiamare/E mi dice venite venite/che vi voglio perdonare”. E un altro fa preciso riferimento alla centa: “Nui venimo ra tanto lontano/ e purtamo sta centa ncapo/La putamo all’autare maggiore/o Maria prea pe nui peccatori”. Naturalmente i pellegrinaggi avevano come meta anche i santuari rupestri o di campagna tipo quello di San Mauro a Capizzo, di Santa Lucia a Magliano, di San Donato a Monteforte Cilento, della Madonna di Loreto a Trentinara. L’uso delle “cente” si è trasferita dai pellegrinaggi ai santuari alle processioni per le feste dei “Santi Patroni” dei singoli paesi. E quindi le feste religiose con le rispettive ritualità arricchiscono anche i nostri canti popolari, che costituiscono così uno straordinario patrimonio di Cultura, nell’accezione più ampia del termine e la cui tutela non può essere affidata alle singole personalità per quanto prestigiose; deve costituire, invece, geloso ed orgoglioso patrimonio di tutta una collettività, che in quei valori si riconosce e per essi è disposta a battersi in nobili battaglie di impegno civile. E mi piacerebbe che ogni comunità, piccola o grande che sia, desse vita nel proprio territorio ad un MUSEO DELLA MEMORIA, che costituisca una riappropriazione convinta e ragionata del proprio vissuto storico. E questo dovrebbe essere il compito lodevole ed operoso delle Pro Loco, che spesso, invece, consumano tempo e risorse umane (molte) ed economiche (poche) nello scimmiottare modelli e progetti importati dal di fuori ed estranei alle tradizioni ed alla cultura delle nostre comunità. E le nostre battaglie, amici intellettuali e colleghi del mondo dell’informazione, vanno combattute proprio per radicare nella coscienza della gente l’orgoglio di identità e di appartenenza, che può e deve trovare concreta ed esaltante visibilità nelle istituzioni museali; battaglie che si possono fare e si possono vincere a condizione che ci scrolliamo di dosso il vizio antico dell’individualismo, ci liberiamo dal poco nobile tarlo della gretta gelosia politica, mettiamo da parte qualche malcelata tentazione di dispettosa rivincita e diamo la stura ad una feconda gara di generosa ideazione e progettazione in comune con l’intento di stimolare amministratori, operatori economici e popolo su progetti ed obiettivi esaltanti.
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