Cafasso è il borgo più antico della Piana. Ci sono stato di recente. Mi sono incantato, come sempre, alla chiesetta stilizzata nel nitore dei suoi colori tenui con l’agile ed arioso campanile nell’ardito tentativo di perforare il cielo con un filo di croce a rifrangenza dell’ultimo sole.
Ho attraversato a passi lenti la piazzetta nell’assorto silenzio di paese a viaggio a ritroso di memoria. Ho cercato, invano, la sorgente del fiumarello, dove, bambino, calai a refrigerio di polla cristallina un’anguria che divorai a pastose mezzelune impiastricciandomi il viso di zuccherosi umori nel divertito riso a gara di sbafo con mia sorella. Nessuna traccia. L’acqua è seppellita, forse, nelle fondamenta di un palazzetto per civili abitazioni a tumulazione della memoria personale e collettiva. Nessuna traccia neppure del lavatoio pubblico, dove le donne, ciarliere e canterine, stropicciavano e sbatacchiavano i panni del bucato. Ne ho individuato o immaginato i resti in un giardino privato, che ha impunemente incamerato un bene collettivo. L’aia di zi’ Aniello, dove pulsò vita di soddisfatta allegria per l’abbondanza dei raccolti, giusto premio ai sudori ed agli stenti della fatica del vivere, è nell’abbandono a libera conquista di una ficaia straripante e di una lussureggiante vegetazione da fienagione spontanea con il contorno poco edificante di libero e, suppongo, abusivo deposito di vecchi arrugginiti attrezzi da lavoro agricolo e non. Nel degrado a cielo aperto a sfregio di memoria antica!
Più giù c’è sempre il vecchio opificio della SAIM a riecheggiare ancora nei capannoni vuoti i lamenti di fatica di mia madre nelle lunghe afose giornate di agosto/settembre con i veleni del tabacco aggrumati alle mani e pestiferi alle narici. E’ uno splendido esempio di proto industria, frutto dell’intuito imprenditoriale di capitalisti venuti dal Nord che nel territorio impegnarono professionalità e risorse. Un cancello, che esalta, nella vergogna, la ruggine e l’incuria del tempo, è testimone dell’imbocco di una breve tratta ferroviaria, donde partivano i vagoni carichi di frutta alla volta de “La Piccola” di Capaccio Scalo, tirati da cavalli bianchi a galoppo nella pianura, sotto l’occhio divertito ed orgoglioso dell’imprenditore Bonvicini. Potrebbe essere ripristinata e destinata a museo a cielo aperto della vecchia civiltà agricola oltre che a salutare passeggiata ecologica. E’, invece, il regno indisturbato della vegetazione spontanea, della sterpaglia e del deposito di immondizia di cittadini impunemente incivili. Ho ricordato che alcuni anni fa qui partecipai ad un incontro elettorale con il compianto Amico, Gigino Di Lascio, candidato/sindaco al Comune di Capaccio. Tema del dibattito: passato, presente e futuro: il Vecchio ed il Nuovo del Cafasso.
Al cospetto di tutta o quasi la gente del borgo (ne ho ancora memoria lucida) diedi il mio contributo di idee, inserendomi nella vasta, meditata ed articolata progettualità del candidato-sindaco. E, naturalmente il discorso cadde sul tabacchificio, sostenendo entrambi, con forza e con lucida consapevolezza, che quella struttura inutilizzata sarebbe potuta diventare una enorme risorsa se destinata a contenitore prestigioso per attività culturali: Università del Turismo con facoltà ad indirizzo archeologico e scienze del restauro, museo dell’agricoltura e delle acque della piana, mostre di pittura di rilievo internazionale per esaltare la mediterraneità di Paestum e le esperienze/testimonianze dei viaggiatori del Grand Tour, centro congressi, ecc. Man mano che il progetto prendeva forma e sostanza nella esposizione appassionata il borgo si popolava di futuro con le schiere di docenti, studenti, artisti e critici che materializzavano un sogno nella concretezza delle iniziative con una straordinaria ricaduta di immagine per la città di Paestum e per l’intera regione Campania e con un lievito fecondatore di economia/e per il villaggio, destinato ad essere,così, per naturale vocazione, il serbatoio dell’accoglienza di qualità della contigua città dissepolta.
Gli occhi lucidi di convinta approvazione e gli applausi prolungati a sottolineare i passaggi più significativi degli oratori erano testimonianza indignata per l’assurdo progetto di fare dei capannoni della SAIM un alveare di appartamenti per civili abitazioni, regno indecoroso del cemento a gonfiare i portafogli di speculatori senza scrupoli e di amministratori, a dir poco, compiacenti.
La sola prospettiva indignava l’uditorio, che esplodeva con rabbia in un applauso liberatorio a sdegnoso rifiuto dello sfregio alla bellezza e alla memoria storica.
Non se ne fece niente. Ora l’argomento diventa di attualità in vista della redazione del PUC, che deve essere approvato per legge entro il 2018 .Il PUC come sanno bene gli addetti ai lavori, ma anche la più vasta società civile deve ridisegnare la città del futuro, che come ho avuto modo di scrivere più volte, deve trasformare la coriandolizzazione del territorio in contrade; ne faccia, invece, un unicum… che trasformi le isole in un arcipelago, ricco di feconde interconnessioni facendone una città nella pienezza delle sue funzioni. Mi riprometto di ritornare sul tema con un discorso articolato nella consapevolezza che questo sarà il banco di prova, la sfida dell’Amministrazione Palumbo, come d’altra parte è stata da decenni per tutte e amministrazioni precedenti. Mi auguro fortemente che non si ricada nell’errore del passato: di considerare il PUC per soli addetti ai lavori (amministratori, tecnici, imprenditori, proprietari di suoli già edificabili o da destinare alla edificabilità, ecc.), interessati per ragioni trasparenti e, come tali, confessabili, ma, spesso, anche inconfessabili. Purtroppo! Auspicherei una sorta di STATI GENERALI DEL E PER IL PUC, in cui tutti ed ognuno possano dire la loro in assemblee pubbliche, tenuto conto che si tratta di ridisegnare la CITTA’ DEL FUTURO, dove vivranno anche i nostri figli e, quel che conta di più, anche i numerosi turisti che, certamente, continueranno a vistare il Territorio che il mondo ci invidia. Non facciamo i pressappochisti e gli improvvisatori o, peggio ancora, i furbi con la malcelata vocazione agli affari non sempre leciti. IL MONDO CI GUARDA E C GIUDICA
P.S.
Anticipo qui di seguito in sintesi il tema del mio prossimo articolo sul tema:
All’epoca ricorsi all’immagine delle isole e dell’arcipelago, che mi piace riprendere per una efficace resa d’immagine.
Le isole, per quanto belle e compatte nell’armonia del proprio microcosmo, restano chiuse nel proprio mondo di solitudine, isole appunto, laddove necessitano di reti feconde di interconnessione per popolare un arcipelago con tutta la ricca e varia prismaticità di ampie possibilità di sviluppo.
I nostri comuni sono spesso isole chiuse e, in parte, paghe, se non addirittura gelose, della propria e “aristocratica” solitudine.
Urge una spallata che ramifichi profonde e solide interconnessioni per creare un arcipelago.
La “Città” da me ipotizzata va in questa direzione.
E non sfugge la necessità di un organismo amministrativo sovra comunale che accorpi funzioni e ruoli propri di una città nella gestione dei servizi come nell’organizzazione della cultura, delle politiche sociali, dei progetti di sviluppo, delle dinamiche economiche, delle attività produttive, strappando, queste ultime, alla logica, alla lunga asfittica, di nicchie di eccellenza sì, ma destinate a non incidere più di tanto nello scenario dei mercati sempre più esigenti.
Una città che da Altavilla ad Agropoli, passando per Capaccio, trasmigri verso le propaggini di colline e montagne di Albanella, Roccadaspide, Trentinara, Giungano, Ogliastro e Cicerale, darebbe vita ad un agglomerato di 60/70 mila abitanti con una notevole forza di contrattazione verso le Istituzioni provinciali, regionali, nazionali ed europee per reclamare, a pieno titolo, consistenti finanziamenti per progetti di sviluppo integrato.
E la centralità di Paestum con l’enorme patrimonio di arte e storia ne giustificherebbe ancor più la richiesta.
Unità nella diversità potrebbe essere lo slogan di un territorio che, senza minimamente rinunziare alla tipicità delle singole realtà locali, esalterebbe, però, la unitarietà di un comprensorio connotato da identici problemi di sviluppo.
E, tutto sommato, si tratterebbe di riscoprire ed attualizzare la storia, che vide in Paestum la capitale-metropoli di una vasta kore, che dalla pianura feconda di agricoltura intensiva si diramava a sviluppo stellare verso le colline festanti di uliveti, vigneti e frutteti.
Oggi abbiamo una freccia in più all’arco dello sviluppo:il turismo in tutta la ricca, varia e complessa articolazione dei suoi segmenti: Beni culturali, ambiente, giacimenti enogastronomici, i mille mestieri dell’artigianato, ecc.
La materia per un dibattito c’è. E tanta. Che ognuno faccia la sua parte. Per quel che posso e valgo io sono disponibile…