Recentemente ho fatto un viaggio in compagnia di Antonietta Speranza e di Giacomo Rodio, direzione Roccagloriosa per una serata carica di emozioni già nel titolo: “Cilento in musica, poesia e passione civile”. È stata una serata memorabile, di cui altri hanno già scritto a più riprese in questo stesso giornale. Ma anche il viaggio lungo la strada interna è stato carico di emozioni sull’onda dei ricordi e della riscoperta dei paesi dell’interno.
Quello stesso viaggio lo feci un anno fa, destinazione Vallo della Lucania in una mattinata di primavera e ne scrissi con grande partecipazione emotiva anche allora. Ripropongo le sensazioni /emozioni di quel viaggio nella consapevolezza che i nostri paesi dell’interno hanno una loro straordinaria potenzialità di letterarietà, che gli intellettuali del territorio dovrebbero avere l’orgoglio di esaltare e promuovere e la Politica, a tutti i livelli dovrebbe potenziare con opportune iniziative. Questo sarebbe o dovrebbe essere (il condizionale è d’obbligo) il compito primario della governance del Parco. Il pezzo che segue e che scrissi nel giugno del 2016 va in quella direzione. E, almeno nelle intenzioni, potrebbe essere il primo di una lunga serie.
Il Monte Vesole ostenta il tenero fogliame delle faggete fin lassù al passo arcuato, che riecheggia peana di lavoro di pastori e taglialegna, canti di briganti generosi e protettivi con i deboli, spietati e vendicativi con i prepotenti, feste agostane a circolo di “nevere”. Sono, a solitaria memoria di infanzia lontana, nel giardino di casa di Trentinara, di mattina presto. Mi sveglia dal “transfert” di malinconiche riflessioni a recupero di memoria storica il prof. Antonio Trotta, docente di inglese allo storico Liceo Classico Parmenide di Vallo della Lucania, dove mi porterà per un incontro programmato sulla mia poesia con gli alunni e professori. Abbracci caldi e festosi e rievocazione di generose battaglie comuni nel nome del socialismo lungo tutta l’ora o quasi di viaggio. La macchina avanza tra comodi tornanti nel diluvio della vegetazione, in una giornata luminosa di sole agli inizi di giugno. Siamo nel cuore verde del Parco del Cilento, che si veste a festa nello sfarzo della primavera, lecci, carpini, cerri e roverelle scivolano fino a margine di fossati, dove troneggia di vanità l’oro effimero delle ginestre, il viola dei cardi. Il rosso dei papaveri e la neve sporca del rosmarino. Giù nella vallata le povere campagne di uliveti e vigneti con le minuscole case coloniche per riparo dalle intemperie e la custodia degli attrezzi da lavoro. La cupola del minareto del campanile di un santuario di campagna ritma, nella memoria, le litanie dei contadini a propiziare grazia di raccolti abbondanti. Qui fu passaggio e sosta di monaci basiliani e di eremiti a veglia di Madonna di Loreto. La contrada Cavallazzo rievoca, anche nel toponimo postazione e sosta dei mercanti pestani a penetrazione di commerci verso l’interno. Sui monti della Ferracchiosa, Corbella, di cui restano scheletri di insediamenti, testimonia un “castrum” potente dei lucani a sospirato sbocco verso il mare. Più in là Cicerale e Monte si stendono pigramente sui crinali della collina con il loro carico di storia scritta nelle chiese, nei castelli e nei palazzi gentilizi. Ad una svolta Monteforte ci si para dinanzi con il grappolo di case a dirupo di vallata, dove l’Alento, fiume sacro al territorio, feconda le vigne generose di aglianico robusto e di barbera frizzante. A margine di fiume una chiesetta conserva la statua di San Donato protettore, che veglia su campagne ed acqua e d’agosto, in una processione punteggiata, all’imbrunire, dalla serpentina delle fiaccole, è accolta nella parrocchiale a ritmo festoso della banda, nel fuoco delle luminarie e con l‘esplosione delle granate a trafittura/penetrazione di cielo. Nel 1828 sulle fiancate del Chianiello divampò e crepitò minaccioso un altro fuoco fatto appiccare dal Maresciallo del Carretto con l’intento di disboscare i Fratelli Capozzoli, nati briganti e moti eroi della prima rivoluzione cilentana. Fu, Monteforte, una fortezza longobarda e ne conserva ancora le tracce nell’insediamento ardito tra monti e fiume. Giù in lontananza, l’Alento si allarga nell’invaso della diga, che la gente ha pomposamente battezzato “lago” e che, comunque, è un’opera di ingegneria moderna, un pezzo d’ Europa. Là dove fino a qualche decennio fa prosperava la macchia di rovi e ginestre ed impazzava, d’estate, il concerto a gara di grilli e cicale. Un utilizzo razionale dell’opera potrebbe assicurare un avvenire di agricoltura di qualità e di turismo di nicchia delle zone interne. A poche centinaia di metri dall’abitato il minuscolo cimitero luce di sole al bianco delle tombe, dove dormono il sonno dei giusti contadini che ritmarono una vita di stenti e di sudori giù giù per le campagne non sempre generose, che caracollano in pendio verso la valle, dove il fiume riduce alveo e portata man mano che s’inciela verso la sorgente di Gorga, all’ombra di cerri e castagni. Dopo il cimitero di Monteforte la strada procede a tornanti ariosi: balconate spalancate sui declini a scivolo. La macchina arranca solitaria per la provinciale sconnessa ed avvallata dall’incuria e dalle intemperie e turba il pascolo sereno di una capra che dà voce alla protesta del campanaccio, il cui suono ingigantito dall’eco si spegne roco nella vallata. Ad una svolta Capizzo che, nel grumo di case a corona della Chiesa Madre, testimonia di laure basiliane. Il Campanile unico nella massiccia struttura da fortilizio e la Chiesa di San Fortunato a margine di strada mi accendono memorie di anni lontani, quando vi venni per la prima volta devoto litaniante di una processione penitenziale. Si snodava su per le mulattiere ombrose di montagna a conquista di panorami da delirio e a testimonianza di fede fino al Monte Capo Pizzo, che dà il nome alla contrada, e dove San Mauro protettore veglia su gente e campagne immobile nella nicchia, benedicente. È ricca di suggestione la minuscola cappella scavata nella roccia. Siamo nel territorio di Magliano, che a qualche chilometro di distanza si stende pigro a margine di strada o si arrampica ardito a conquista di monte fino alla cappella rupestre di Santa Lucia, a ridosso della montagna rossa, meta di pellegrinaggi di fede consumati all’alba per arditi percorsi di campagna, come mi testimonia l’amico Antonio Trotta che a Magliano è nato e vive, tra creatività di progetti didattici innestati ed innervati sul territorio e cura di agricoltura di sussistenza per la produzione di frutta ed ortaggi rigidamente immuni dai veleni dei pesticidi, e che prosperano, invece, con il concime dello stallatico.
Di Magliano ce ne sono due, il Vetere quaggiù lungo la strada, a dominio dell’Alto Alento, il Nuovo lassù, aperto all’anfiteatro ubertoso della Valle del Calore e quasi a precipizio nelle gole del fiume, verde ed incontaminato regno della lontra fin laggiù all’oasi di Remolino sotto la rupe di Felitto. Magliano fu stato autonomo e forte ed evoca le battaglie e la dominazione dei Goti e l’inespugnabile passo della “Preta Perciata”, per il difficile accesso dal territorio dell’Alento a quello del Calore e di là, attraverso la Sella del Corsicato, al Vallo del Diano e fino a Grumentum, per percorsi che certo conobbero Pestani e Velini per comunicare via terra con Sibari, animando traffici e commerci dal Tirreno allo Ionio. In questi territori impervi ed in parte sconosciuti si è materializzata gran parte della storia antica. Ah, quali sorprese potrebbe riservare ai nostri ragazzi, se solo fossero motivati e guidati in un fecondo percorso didattico di ricerca e riscoperta delle radici per gonfiarsi di legittimo orgoglio di appartenenza! Oggi per le campagne c’è la festa della primavera ed io in gara con i passeri in amore mi figuro il canto di Pasquale Lombardi. Medico instancabile e generoso, poeta di stampo carducciano, intriso spesso di retorica, ma non privo di tensione ideale e commozione emotiva In distanza, sulla ridente collina Gorga si affaccia sulla vallata ed il pensiero corre alla sorgente dell’Alento, all’ombra dei castagneti del Monte Le Corne. Vi nacque il canonico Vairo, letterato colto e poeta raffinato, che cantò la sua patria ed il suo fiume in un elegante distico latino “Mihi patria est, gelidis saluberrima lynphis quam cingunt colles, subter devolvitur amnis”. Ma fu anche la terra di Menechiello, brigante spietato, che esercitò dominio di vita e di morte su un bel pezzo di territorio cilentano. Gorga è frazione di Stio che meritano una riflessione a parte ma noi le bypassiamo attraverso odorose strade interpoderali e sbuchiamo in un baleno alla chiesa della Madonna della Croce, nota perché vi si tenne e in parte si tiene ancora una della più note ed accorsate fiere del Cilento. Magliano, Stio e Gorga sono alle spalle ed ogni tanto fanno capolino nello specchietto retrovisore occhieggiando con i loro paesaggi d’incanto precipiti sui declivi o sulle falesie d’ocra. (Bellissimo quello di Magliano che dirupa sui tornati della strada per Laurino, mentre la macchina macina, solitaria, chilometri all’ombra dei castagneti con mandrie alla pastura brada tra pascoli verdi e freschi di rugiada. Dopo il lungo tunnel umbratile dei castagneti che rifrangono, l’oro di ricci giovani alla solarità del giorno pieno, la Retara franosa è gloria di luce e festa di colori su ginestre e cardi in fiore. È d’obbligo una pausa per un bagno di emozioni sullo spettacolo della Civitella che scivola verso Moio, Pellare, Cannalonga, Angellara e Vallo, con di fronte Novi, un paese museo, e quella montagna sacra alle spalle che si lega al cielo con un filo di croce e, a distanza, Velia ed il mare dei miti e della Grande Storia. Ma questa seconda parte del viaggio merita un’altra puntata, a parte.