Disegnare vuol dire progettare il mondo. Non è una pratica accessoria dei linguaggi artistici, ma il loro fondamento. Maisto con i suoi acquerelli progetta un mondo nuovo. Non è qualcosa che appartenga solo a lui, ma è un universo popolato e aristocratico, in cui quello che appare non è. Tutto quello che fa è legato a potenziare i dettagli, lavorare sul piccolo, come un alluminatore animato da un’insaziabile curiosità. Anche quando realizza le sue sculture, sempre molto aeree e leggere, anche quando sembra che l’urgenza del creare lo attragga. La sua anima sta nel trasferire nel suo codex personale le fantasie che collegano la propria visione estetica con la storia dell’arte.
I suoi riferimenti culturali sono alti. Vanno ai bestiari medievali, alle enciclopedie di fiori e piante, a quelle tavole linneiane in cui la scienza sembrava ancora alle prese con la certezza dell’esperienza. Ulisse Aldrovandi è un nome da ricordare. Naturalista bolognese di fine ‘500 e collezionista di piante e animali ordinari o straordinari, è stato il primo a dare un senso classificatorio alle cose di natura, piante e animali. In mezzo a fiori, foglie e scheletri di animali veri, capitavano anche degli “scherzi di natura” che più che al mondo naturale appartenevano al commercio. Abili truccatori di ossa che confezionavano l’impossibile per approfittare della credulità scientifica sempre alla ricerca del lusus naturae e facilitati in questo dal fatto che le distanze al tempo erano incalcolabili dagli strumenti del comunicare a disposizione. L’Aldrovandi non a caso stimò e lavorò con un grande pittore come Jacopo Ligozzi, maestoso interprete dei naturalia, che alloggiava a Firenze a cospetto dell’Orto botanico. Un destino.
Angelo Maisto frequenta anche il lato oscuro della rappresentazione, quello legato all’insania e alla follia generativa. Bosch e Brueghel probabilmente, almeno nella loro capacità di sintetizzare l’assurdo, di rendere vivo il mondo onirico. Tutto cambia e si trasforma. Anche gli oggetti che sembrano sempre seri e immutabili. Perché nel concetto di metamorfosi Maisto non esita a portare il popolo muto delle cose dentro un’idea organica dell’arte. Quest’ultima serve letteralmente a dare vita. Fa nascere creature che prima non c’erano, dà leggerezza a ciò che era pesante e vita a ciò che era immoto e cadaverico. Allora si capisce come la leggerezza delle sculture e dei disegni appartiene ad una visione comune in cui l’arte si prende la responsabilità di parlare del reale facendo finta di sognare e di parlare di se stessa. Maisto recupera da un lato il lato favolistico dell’arte, il suo essere volo pindarico, ma anche ritrova quel cuore di tenebra che si nasconde dietro le favole. Quel portentoso e spaventoso che appartengono ai cauchemar. Perché la bellezza non è mai banale. Quella vera che ha a che vedere con la storia e la ricchezza interiore, non quella stereotipata della chirurgia estetica e del successo sociale.
E anche il titolo della mostra “Diakosmesis” scelto dall’artista, riprende un concetto caro ai greci e a Pitagora in particolare, che chiamò “còsmos”, cioè ornamento, gioiello, l’universo, perché posseduto da un ordine ripetitivo, complesso e affascinante nella sua coerenza e misurabilità. La concezione pitagorica, pietra miliare per tutta la speculazione estetica in Occidente, nasce proprio dal percepire e ricercare il senso dell’armonia e proporzione nelle cose, a cominciare dall’ordine cosmico, appunto. La diakosmesis o divina dispositio, è qualcosa che possediamo anche noi umani ed è riflesso di ciò che accade nel macrocosmo. Vi è un ordine nelle cose e l’arte deve riscoprirlo, al di là delle apparenze. Per altro per i filosofi stoici la diakosmesis era un ciclo in cui il mondo abitato e animato dal fuoco, si consumava e grazie al fuoco stesso tornava a essere bello. Così tutto tornava ad avere un senso.
L’artista-artefice come Angelo Maisto ricrea un ordine mettendo insieme cultura alta e bassa, cose e oggetti, storia dell’arte e bricolage, in una nuova configurazione di curiosità, in una nuova storia naturale. La sua è una pratica estetica ma anche di conservazione. L’arte preleva dalla realtà e dal mondo delle immagini forme che attendono sempre una trasmigrazione simbolica. Come il fuoco che consuma e che dà vita, anche l’arte in questa concezione aiuta a conservare le forme e le vite che contengono, serve a creare una natura parallela che ha regole proprie ma che è sincronica e complementare con quella reale.
Il Codex Maisti consiste proprio nel condensare gli aspetti di una profonda dimensione diacronica con la ricerca di ironia e leggerezza di un linguaggio artistico che vuole stupire e che non ha fretta di convincere. Tra illustrazione ed estetica neo-barocca, la sua personalità e la sua pregevole tecnica, hanno costruito uno stile forte e riconoscibile. Si tratta di ri-costruire un senso e un universo a partire da una serie di elementi animati che appartengono ad un genere mai visto prima. Sono creature e basta. Governate dalla differenza e dall’empatia. La loro provenienza è ignota e tale deve restare, la loro esistenza è una garanzia di sopravvivenza per l’arte di creare dal semi-nulla, qualcosa che ci fa riflettere sul miracolo della bellezza. La sapienza della tecnica e l’intensità della pazienza, sono due altre coordinate che ci possono aiutare per entrare ancora meglio in questi lavori. Le forme che Angelo Maisto costruisce, nascono da complicate associazioni e arrivano alla semplicità per lunga elaborazione. Ci vuole tempo proprio perché il valore concettuale di queste opere sta proprio nel rivelare che il tempo fa parte del valore dell’opera. Anche questa è una pratica antica, la manualità corre con il pensiero, segue i suoi lunghi percorsi. I minuti, le ore e i giorni misurano l’attenzione dell’artista, la passione per la qualità. Va da sé che l’intuizione da sola non basta.